La coscienza critica: alcuni esempi del Novecento

  • La coscienza critica: alcuni esempi del Novecento

Résumés

Vengono dati alcuni esempi di coscienza critica del ventesimo secolo. Ora la coscienza critica non può più avvalersi del passato per guardare al futuro e riflette sia la nascita della psicanalisi sia l’esperienza delle due guerre mondiali.

Some examples of the critical consciousness of the twentieth century are given. Now the critical consciousness can no longer use the past to look to the future and reflects both the birth of the psychoanalysis and the experience of the two world wars.

Texte

All’inizio del Novecento la coscienza critica1 tenta invano un ritorno alle origini ossia alla funzione di guida della ragione. La disputa sugli universali si ripropone questa volta in chiave moderna per stabilire se l’oggetto della conoscenza è già dato nella realtà sensibile oppure se è una mera produzione del soggetto pensante ovvero una proiezione dell’io, privilegiando gli atti linguistici e dando così origine a un’interpretazione simbolica dei testi:

Chiamo simbolo ogni struttura di significazioni in cui un senso diretto, primario, letterale designa in sovrappiù un altro senso indiretto, secondario, figurato che può essere appreso soltanto attraverso il primo […] l’interpretazione è il lavoro mentale che consiste nel decifrare il senso nascosto nel senso apparente, nel dispiegare i livelli di significazione impliciti nella significazione letterale…2

Kant si era mostrato scettico riguardo la possibilità di conoscere l’Assoluto e quindi riguardo alle idee intese come verità oggettiva e aveva concentrato la sua attenzione sulla condizione in cui versava il soggetto pensante: in altre parole per questi era impossibile intelligere prescindendo dalla sua condizione immanente rispetto alla realtà:

Infatti, nella sensibilità, cioè nello spazio e nel tempo, ogni condizione a cui noi possiamo giungere nell’esposizione di fenomeni dati, è, a sua volta condizionata: perché questi fenomeni non sono oggetti in sé in cui possa in ogni caso aver luogo l’assolutamente incondizionato, ma semplici rappresentazioni empiriche, che devono sempre trovare nella intuizione la loro condizione, che li determini rispetto allo spazio o al tempo. Il principio della ragione, dunque, non è propriamente se non una regola, che nella serie delle condizioni di dati fenomeni impone un regresso, al quale non è dato mai di arrestarsi a un assolutamente incondizionato.3

Agli inizi del Novecento la coscienza critica guarda indietro nel tempo e, così facendo, viene a delinearsi l’identità del soggetto, ma quest’ultimo non ne intuisce la ragione come accadeva fino all’Ottocento. Ogni volta che il soggetto guarda al passato, il flusso degli avvenimenti inizia a scorrere nuovamente e diversamente da come avveniva la volta precedente; il passato viene offuscato nel profondo dell’io del soggetto producendo una rottura della linea continua degli avvenimenti che fanno parte della vita dell’individuo. Quindi ogni nuova esperienza non risulta più riconducibile al modello archetipico ovvero alla riflessione che aveva contraddistinto il soggetto nel passato: ciò comporta che ogni obiettivo che il soggetto si prefigge risulta irrealizzabile nella vita reale poiché, quando si pensa di averlo raggiunto, esso risulta spostato in avanti nel futuro. Vengono quindi meno gli strumenti di analisi della realtà che, nell’Ottocento, partivano dal pensiero per culminare nell’azione. Il passato che dovrebbe aiutare ad interpretare il futuro viene visto come altro finendo per costituire un paradosso nella formazione dell’identità del soggetto. Il passato influenza la vita reale in modo da rendere il soggetto consapevole dell’impossibilità di una propria scelta volta a rispecchiare una perfetta corrispondenza tra pensiero e azione. Il soggetto vive una realtà che ora gli appare indecifrabile e che contribuisce solo ed esclusivamente alla formazione dell’opinione deducibile dall’esperienza. La vita è fatta solo di brevi momenti del tempo quotidiano che rendono la scelta uno spartiacque tra l’aspettativa del soggetto, grandiosa e sublime, proiettata verso grandi azioni, e la banalità dell’esistenza, scandita dalla necessità di guardare al dato concreto senza poter avere una visione d’insieme.

Il passato considerato, fino all’Ottocento, un momento di riflessione dell’intellettuale ovvero un modello archetipico oggettivo, adesso perde la sua tradizionale funzione finendo coll’esporre il soggetto ad un’attualità empirica che rende difficilmente praticabile un percorso di vita assimilabile, per esempio, a quello di Petrarca, Tasso, Marino, Alfieri, Parini, Goldoni, Foscolo. Ne consegue che la scelta finisce coll’essere frutto del caso e condiziona colui che sceglie relegandolo ad una sorta di isolamento involontario dalla realtà. Ciò comporta il passaggio da una dimensione razionale delle parole ad una dimensione decontestualizzata, più propriamente onirica delle stesse. Prescindendo dalla realtà materiale Pascoli insiste sul valore platonico contenuto nelle parole. Il fanciullino guarda alla quotidianità per scoprire il valore irrazionale delle piccole cose perdendo in questo modo la percezione del tempo oggettivo:

È dentro noi un fanciullino […]. I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici ed umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione […].

Senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare.4

D’Annunzio carica le parole di significati simbolici che sottintendono una realtà più profonda anche quando esse rimandano al campo semantico della natura. In questo modo l’autore unisce all’elemento panico il proprio atteggiamento esibizionistico come si ricava dal passo seguente:

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.5

Già con Lucrezio il clinamen conduceva alla soddisfazione degli istinti primordiali dell’uomo, espressione del suo libero arbitrio:

Denique si semper motus conectitur omnis,
et vetere exoritur ‹semper› novus ordine certo,
nec declinando faciunt primordia motus
principium, quoddam quod fati foedera rumpat,
ex infinito ne causam causa sequatur,
libera per terras unde haec animantibus exstat,
unde est haec, inquam, fatis avolsa voluntas,
per quam progredimur quo ducit quemque voluptas,
declinamus item motus nec tempore certo
nec regione loci certa, se ubi ipsa tulit mens?
Nam dubio procul his rebus sua cuique voluntas
Principium dat, et hinc motus per membra rigantur.
Nonne vides etiam patefactis tempore puncto
carceribus, non posse tamen prorumpere equorum
vim cupidam tan de subito quam mens avet ipsa?
Omnis enim totum per corpus materiai
copia conciri debet, concita per artus
omnis ut studium mentis conixa sequatur;
ut videas initum motus a corde creari,
ex animique voluntate id procedere primum,
inde dari porro per totum corpus et artus.
Nec similest ut cum impulsi procedimus ictu
viribus alterius magnis magnoque coactu.
Nam tum materiem totius corporis omnem
perspicuum
st nobis invitis ire rapique,
donec eam refrenavit per membra voluntas.

(Se infine fossero i moti
Concatenati in sé, tutti, e il nuovo sempre con ordine
Fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dagli atomi,
col deviare, principio a nessun moto che rompa
la legge imposta dal fato, sì che non segua una causa
all’infinito dall’altra, donde, io domando, qui in terra
donde verrebbe mai questo libero arbitrio ai viventi,
sciolto dal fato, per cui andiamo ognuno là dove
il desiderio ci porta, e deviamo anche i moti,
non già nel tempo e nel luogo prestabilito, ma come
più ci talenta?
Ché senza dubbio è il volere che inizia
i movimenti di ognuno, e di qui poi si diramano
i movimenti pel corpo. Non vedi, quando spalancano
le sbarre, in pista, di colpo, come non possano irrompervi
benché focosi, i cavalli veloci al pari di quanto
il desiderio vorrebbe? La quantità di materia
si deve infatti animare interamente nel corpo,
perché, diffusa negli arti, tutta assecondi, concorde,
l’aspirazione dell’animo. Vedi perciò che dal cuore
si crea l’inizio del moto, e dal volere dell’animo
esso dapprima procede, poi si propaga all’intero
corpo e alle membra: e non ha nulla in comune con quanto
facciamo mossi da un urto, sotto la spinta gagliarda
e la gran forza d’un terzo: perché l’intera persona
allora avanza, è palese, nostro malgrado, ed è tratta
così finché nelle membra la volontà non la freni)6

Adesso c’è bisogno della psicanalisi di Freud affinchè detti istinti vengano portati alla luce rendendo così il soggetto pensante consapevole della non unità della propria coscienza critica. Se così non fosse essi rimarrebbero confinati nella recondita dimensione dell’inconscio a causa del disagio della civiltà di massa che non lascia spazio alla parola intesa a dare un nome all’oggetto della conoscenza negando quindi la coscienza critica stessa. Gli istinti primordiali si rendono comprensibili attraverso l’interpretazione del linguaggio del mito:

Il re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’appagamento di un desiderio della nostra infanzia. Ma, più fortunati di lui, siamo riusciti in seguito – nella misura in cui non siamo divenuti psiconevrotici – a staccare i nostri impulsi sessuali da nostra madre, a dimenticare la nostra gelosia nei confronti di nostro padre. Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel desiderio primordiale dell’infanzia, indietreggiamo inorriditi, con tutta la forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora nel nostro intimo. Portando alla luce nella sua analisi di colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prendere conoscenza del nostro intimo, nel quale quegli impulsi, anche se repressi, sono pur sempre presenti.7

Anche in Svevo la coscienza critica riflette il disagio della civiltà di massa, perciò la sua diversa evoluzione rispetto agli altri esseri viventi culmina in un’estraneità nei confronti di se stessa. Ciò la spinge verso un cieco progresso con il quale può costruire solo ordigni di morte. Così, dopo una violenta esplosione, l’uomo scomparirà. Svevo usa l’espediente della fine dell’umanità per meglio evidenziare le paure che si annidano nell’inconscio di tutti coloro che sono vittime della « terribile consunzione della volgarità ordinaria »8:

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è la minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande tristezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!

Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorchè la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.9

Con Pirandello la realtà riflette la condizione di relativismo della coscienza critica che perciò si frantuma in tanti segmenti che rappresentano ciascuno un’esperienza non comunicabile alle persone e la consapevolezza di non appartenere più ad un luogo e un tempo storicamente determinati:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi, e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Io sono vivo e non concludo. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo. E qua questi fili d’erba teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore, a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane corruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.10

Con i crepuscolari la coscienza critica riflette il dramma della noia esistenziale vissuta in un contesto storico, quello degli anni che precedono la prima guerra mondiale; ora la coscienza critica non dà spazio ad un’interpretazione della storia in senso univoco e lineare che perciò non può più essere utilizzata per spiegare le vicende che caratterizzano questi anni:

I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono un piccolo fanciullo che piange
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.11

Viene quindi meno la funzione del poeta vate, la quale, dalla prospettiva dell’estetica della ricezione di Iser, può essere fatta tranquillamente coincidere con il significato della profezia post eventum che Dante aveva utilizzato per connotare positivamente il suo viaggio immaginario nell’aldilà 12.

Ascesa al potere mistificata dalla cancellazione della cultura del passato e dalla celebrazione del progresso scientifico e tecnologico, decantati in modo da far venire in mente il tragico destino di Icaro, caratterizzano l’ideologia futurista:

1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.13

In Ungaretti il desiderio di pace universale rappresenta la ricerca dell’Assoluto ovvero il ritorno del poeta al grembo materno:

Nude, le braccia di segreti sazie,
A nuoto hanno del Lete svolto il fondo,
Adagio sciolto le veementi grazie
E le stanchezze onde luce fu il mondo.

Nulla è muto più della strana strada
Dove foglia non nasce o cade o sverna.
Dove nessuna cosa pena o aggrada,
Dove la veglia mai, mai il sonno alterna.

Tutto si sporse poi, entro trasparenze,
Nell’ora credula, quando, la quiete
Stanca, da dissepolte arborescenze
Riestesasi misura delle mete,
Estenuandosi in iridi echi, amore
Dall’aero greto trasalì sorpreso
Roseo facendo il buio e, in quel colore,
Più d’ogni vita un arco, il sonno, teso.

Preda dell’impalpabile propagine
Di muri, eterni dei minuti eredi,
Sempre ci esclude più, la immagine,
Ma, a lampi, rompe il gelo e riconquide.14

Un ritorno sempre latente che rende la coscienza critica immersa in una dimensione onirica evitando così che le atrocità della guerra possano offuscarla:

Lasciò i campi alle spighe l’ira avversi,
E la città, poco più tardi,
Anche le sue macerie perse.

Ardee errare cineree solo vedo
Tra paludi e cespugli,
Terrorizzate urlanti presso i nidi
E gli escrementi dei voraci figli
Anche se appaia solo una cornacchia.

Per fetori s’estende
La fama che ti resta,
Ed altro segno più di te non mostri
Se non le paralitiche
Forme della viltà
Se ai tuoi sgradevoli gridi ti guardo.15

Con Saba la dimensione psicologica entra nella vita quotidiana; il sentimento non è più affidato al frammento lirico che suscitava emozione per la lontananza da un luogo sicuro; ora prevale la dimensione narrativa cioè del dispiegamento degli istinti primordiali che sono perciò portati alla luce della bellezza della vita:

Che vedo mai dietro l’erma collina
che primavera così m’avvicina?

Un poco scende, poi risale appena,
ed insensibilmente ivi s’insena.

V’han colli dove bei nuvoli bianchi
posano a tonde spalle e larghi fianchi;

ma questo è nella sua linea più schietto:
mostra un dorso di lungo giovanetto.

Rade casine, qualche massa oscura;
dei vigneti sul ciglio dell’altura

azzurreggiano i pali; un picciol vetro
brilla, e si accende a tutto il sole. Dietro,

come del mare sul lido romito,
si vede l’occhio di Dio, l’infinito.16

Inoltre questi istinti sono valorizzati in un clima di superamento della nevrosi del poeta:

Quello che ò chiamato onestà letteraria […] è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benchè esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, che non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunchè di inaspettato. […] solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.17

Ciò rende possibile una forma di comunicazione non più isolata dal resto del mondo come accadeva per Ungaretti, ma aulica, seppur ancorata alle piccole cose:

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata, il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.18

Montale vive proiettato in una dimensione dove il tempo scorrendo sembra trascinare con sè il Tutto offuscando la coscienza critica del poeta che perciò procede come in un labirinto:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo19.

Montale trova però una via d’uscita riconoscendo l’importanza delle piccole azioni quotidiane e superando così quel senso di alienazione che pervade la vita dell’uomo contemporaneo:

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse
e sportelli abbassati. È l’ora. Forse
gli automi hanno ragione! Come appaiono
dai corridoi, murati!
…………………...
– Presti anche tu alla fioca
litania del tuo rapido quest’orrida
e fedele cadenza di carioca? – .20

Con Quasimodo il senso del disagio della civiltà traspare dall’esperienza della seconda guerra mondiale che finisce col turbare la memoria collettiva e pone di fronte ad un interrogativo: l’uomo è condannato a lottare per sempre con il proprio simile oppure esiste la speranza di una pacifica convivenza? In effetti la risposta del poeta è improntata al pessimismo perché egli è consapevole della rottura del patto che regola la vita comune:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote della tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
« Andiamo ai campi ». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.21

Ma egli, pur rendendosi conto che il problema risiede nella natura dell’uomo, arriva ad una conclusione che supera lo stato di questa condizione: spetta all’uomo rivalutare il proprio essere attraverso la valorizzazione del mito che, rallentando lo scorrere del tempo vissuto, funge da antitodo contro la barbarie della civiltà contemporanea:

Gli accordi della terra,
il suono dell’argilla,
i giunchi di ruggine, foglie basse
verdi lungo la riva dell’Alfeo
verso Olimpia di Zeus e di Era,
ma più d’ogni consenso i segni dentro
d’una rovina ostinata, l’assurdo
di contrasti oscuri: relitti, poi,
di negazioni difese come vita.
E non importa l’armonia delle acque,
Alfeo, sei mite, silenzioso qui
nell’Elide; sui ciottoli oscilla
un sole di crisalide
che pare tramonterà con astuzia,
così lunga la sua fuga. Io non cerco
che dissonanze, Alfeo,
qualcosa di più della perfezione.
Potessi dirottare ora da Olimpia,
dall’intreccio di pini, ancora forme
respinte dalla morte, oltrepassare
l’arco chiuso che conosco. Una porta
da forzare, Olimpia luogo sapiente
di villeggianti, un balzo da ladro
basta sul cavallo d’un frontone, il più
focoso. Non un luogo dell’infanzia
cerco, e seguendo sottomare il fiume,
già prima della foce in Aretusa,
annodare la corda
spezzata dell’arrivo.
La continuazione quieta e indistinta,
Olimpia, come Zeus come Era.
Guardo il tuo capo staccato sul verde,
con una luna di paglia accesa.22

La rivalutazione da parte dell’uomo del proprio essere passa anche attraverso la creazione di una nuova figura di poeta vate la quale non deve essere più contaminata dal disagio del vivere ovvero deve tendere a superare il dolore per la sofferenza:

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.23

Note de fin

1 Di coscienza critica, nello specifico di coscienza critica moderna, si parla in Biagio Lauritano, La nascita della coscienza critica moderna, Line@editoriale, rivista on line dell’Università di Toulouse Jean Jaurés, n° 9, 2017, sezione Varia.

2 Paul Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, Editoriale Jaca Book, 1982, p. 26.

3 Emmanuele Kant, Critica della ragion pura, Editori Laterza, Bari, 1965, p. 421.

4 Giovanni Pascoli, Il fanciullino, in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, G. B. Palumbo Editore, Città di Castello (PG), 2015, p. 221-222.

5 Gabriele D’Annunzio, La sera fiesolana, in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, la letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, cit., vv. 1-14, p. 268.

6 Tito Lucrezio Caro, La natura, introduzione di Luca Canali, premessa al testo e glossario di Salvatore Rizzo, traduzione di Balilla Pinchetti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1980, testo latino alle pagine 126 e 128, traduzione alle pagine 127 e 129, libro II, v. 251-276.

7 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, traduzione di E. Fachinelli e H. Trettl, cura editoriale di R. Colorni, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1997, p. 248-249.

8 F. P. Botti, Il secondo Svevo, Liguori, Napoli, 1988, p. 181.

9 Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cap. VIII, in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, cit., p. 489-490.

10 Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, libro ottavo, cap. IV, in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, cit., p. 423-424.

11 Sergio Corazzini, « Desolazione del povero poeta sentimentale », v. 17-18, in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, cit., p. 506.

12 Ciò era reso possibile perché Dante personaggio, divenendo parte attiva del processo di creazione estetica dell’oggetto ovvero del viaggio immaginario nell’aldilà, produceva l’illusione di allontanare se stesso dalla realtà proiettandosi nel passato. In questo modo Dante autore, già a conoscenza degli avvenimenti del viaggio, poteva ritagliarsi degli appositi spazi nel corso della narrazione per fare commenti al lettore esercitando quindi la funzione del poeta vate.

13 Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, in P.Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, cit., p. 332.

14 Giuseppe Ungaretti, « Canzone », in Vita d’un uomo, Poesie V, la Terra Promessa. Frammenti con l’apparato critico delle varianti e uno studio di Leone Piccioni, Arnoldo Mondadori, Verona, 1954, v.1-20, p.17.

15 Giuseppe Ungaretti, « Poesia XVIII », in Vita d’un uomo, cit., p.38.

16 Umberto Saba, « Veduta di collina », in Il Canzoniere, G. Einaudi Editore, Torino 1958, p.161.

17 Umberto Saba, « Quello che resta da fare ai poeti » [1911], in Prose, a cura di L. Saba, Mondadori, Milano, 1964.

18 Umberto Saba, « Goal », in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol.III, cit., p. 609.

19 Eugenio Montale, « Non chiederci la parola », in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol.III, cit., p.639.

20 Eugenio Montale, « Addii, fischi nel buio, cenni, tosse », in P. Cataldi, E. Angioloni, S. Panichi, La letteratura e i saperi, dal secondo Ottocento a oggi, vol. III, cit., p. 645.

21 Salvatore Quasimodo, « Uomo del mio tempo », in Giorno dopo giorno, in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Verona, 1960, v. 1-13, p.190.

22 Salvatore Quasimodo, « Seguendo l’Alfeo », in La Terra impareggiabile, Tutte le poesie, cit., p. 263-264.

23 Salvatore Quasimodo, « Uomo del mio tempo », cit., v.14-17, p.190.

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Référence électronique

Biagio Lauritano, « La coscienza critica: alcuni esempi del Novecento », Line@editoriale [En ligne], 11 | 2019, mis en ligne le 01 juillet 2020, consulté le 12 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1247

Auteur

Biagio Lauritano

Università degli Studi di Napoli Federico II

blauritano4@gmail.com

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