Tra «Vinegia» e Arno: la biografia in versi di Olimpia Malipiero

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Il Campiello – Études vénitiennes

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1. Accenni biografici

1.1 In «via più sprezzata da lor vivo in bando»

Vidi tra l’altre Olimpia Malipiera

cui Febo, e amor fu sempre amico, e fido,

più che non fu la crudel riviera

a l’altra Olimpia il suo Bireno infido

Saverio Bettinelli, Parnaso veneziano, 1796

Nella sua rassegna di ingegni della laguna veneziana del 1796, l’Abate Bettinelli menzionava, tra i nomi di Gaspara Stampa, Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, anche quello di Olimpia Malipiero, «cui Febo, e amor fu sempre amico, e fido», paragonando per contrasto il destino di quest’ultima a quello dell’«altra» ben più famosa Olimpia, protagonista del capolavoro ariostesco1. Bettinelli, che descrive ed elogia la Malipiero come grata a Febo, doveva aver forse presente lo scambio di sonetti intercorso tra la Malipiero e la poetessa veneziana Giulia Premarini, stampato nel 1565 nel secondo libro delle Rime di diversi nobili toscani2. La Premarini, infatti, si rivolgeva alla Malipiero descrivendola proprio come la prediletta di Apollo, dio del sole e della poesia, scelta tra tutte «per gloria sol del nostro sesso» (vv. 1-4, c. 165b):

Donna, cui Febo tra le rare al mondo

scelse per gloria sol del nostro sesso

e vi diè ’l canto, e’n Cirra il seggio stesso,

perché di lui qui sosteneste il mondo

Con altrettanta cortesia, la Malipiero rispondeva alla poetessa con lodi accorate ma controbilanciando l’entusiasmo e l’ottimismo dei suoi versi con un fondo di amarezza. Al contrario della Premarini, infatti, alla quale è lecito poggiare il piede tra «l’alto Aganippe e’l bel Permesso», la Malipiero si descrive «in bando» e lontana dalle Muse che inutilmente cerca di evocare in suo soccorso (vv. 1-4, 9-11, c. 165b):

Voi donna divina, e’n più secondo

favor nata del cielo, è ben permesso

poggiar l’alto Aganippe, e ’l bel Permesso

[…]

Ma, lassa me: che qualhor più chiamando

vo’ le Castalie Dive al mio riparo;

via più sprezzata da lor vivo in bando

L’insistenza sul tema del «bando», e cioè dell’esilio dalla terra natia a cui alludono le terzine finali del sonetto, non dovrà essere considerata una semplice ricorrenza retorica. Luca Marcozzi, in un recente contributo che esamina la declinazione del topos dell’esilio in Petrarca, ha ben mostrato come la poetica dell’esclusione petrarchesca fosse strettamente connessa, a differenza della tradizione che lo aveva preceduto, con «lo sbandimento delle lettere e degli studi nel mondo moderno e con il rimpianto umanistico per la cultura dell’antica Roma»3. A differenza dei grandi esuli della poesia cortese e dell’anima peregrina per eccellenza della Commedia dantesca, Petrarca soffre piuttosto uno sradicamento intellettuale, vivendo un esilio «nel tempo anziché nello spazio»4. Nel caso di Olimpia Malipiero, invece, la poesia si piega alle esigenze e ai bisogni del reale sfruttando le potenzialità del petrarchismo per stilare una coerente lamentatio contro una sorte che, imperterrita, soffia contraria ai desideri dell’io. Seppur sia difficile rintracciare le tappe della formazione poetica di una poetessa della quale, per molti aspetti, ci rimane semplicemente il nome, il presente contributo cercherà di intrecciare i pochi dati di cui disponiamo alla rappresentazione poetica della voce dell’autrice, prestando attenzione, in parallelo, anche alla dispositio delle sue rime nelle dinamiche dell’antologia entro cui sono stampate. In ciò che ci rimane del corpus poetico dell’autrice, la lontananza dall’oggetto amato è sostituita, infatti, dall’amore non corrisposto verso la terra natale dalla quale la poetessa era stata allontanata, come vedremo, in giovane età, assieme alla famiglia.5 Alle tradizionali pene amorose fanno quindi eco i lamenti di un’anima in esilio che, se da una parte cerca sostegno in Cosimo I e nella famiglia Medici, dall’altra, si rifugia nella speranza di una giustizia divina e di una patria celeste, rifugio topico di ogni anima in cerca di quiete.

1.2 Olimpia Malipiero, “virtuosissima e nobilissima” gentildonna tra Venezia e Firenze

Il nome di Olimpia Malipiero compare per la prima volta, almeno in carta stampata, tra le carte 130-148 delle Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime donne, con trentuno sonetti, un madrigale e una sestina6. Le Rime di donne sono la prima antologia della letteratura italiana ad essere votata esclusivamente, come si legge nella lettera prefatoria del curatore Lodovico Domenichi al nobiluomo milanese Giannotto Castiglioni, alla dimostrazione dell’«ingegno femminile», celebrato con 53 nomi e più di trecento poesie di mano d’autrice7. L’antologia, stampata a Lucca nel 1559 per i tipi di Vincenzo Busdraghi, venne probabilmente assemblata dal poligrafo piacentino assieme all’aiuto di «alcuni amorevoli» suoi «affettionati al valor Donnesco» almeno a partire dal 1549, data d’uscita del suo trattato La nobiltà delle donne. Come si evince dalla lettera al Castiglioni, le Rime di donne si inseriscono nella grande discussione sulla querelle des femmes, ospitando a prova della capacità poetica ed intellettuale femminile una rassegna di centinaia di esempi poetici. Tra queste virtuosissime e nobilissime trovano posto i nomi degli antichi e dei giovani fiori della nobiltà cinquecentesca, con un’attenzione sbilanciata verso le autrici toscane. Se la senese Virginia Martini de Salvi è antologizzata con più di quaranta componimenti a tema prevalentemente politico, la seconda autrice che spicca per numero di testi è la Malipiero, veneziana d’origine ma fiorentina d’adozione, che supera perfino lo spazio concesso a Vittoria Colonna e Veronica Gambara, anch’esse antologizzate nelle Rime di donne in preminente chiusa simbolica.

La fortuna dell’autrice non si racchiude, tuttavia, nell’inchiostro della sola antologia domenichina: dopo il 1559, il suo nome ricompare, infatti, in almeno altre tre preminenti raccolte del tempo. In ordine cronologico, quattro sonetti vennero inclusi nella raccolta antologica curata da Antonio Atanagi per la morte di Irene di Spilimbergo, stampata nel 1561 a soli due anni dalle Rime di donne.8 Lo stesso curatore raccolse poi, nel secondo volume delle Rime di diversi nobili toscani del 1565, il già citato sonetto in risposta a Giulia Premarini. Altri due sonetti vennero stampati, infine, nel Tempio della divina Signora Geronima Colonna d’Aragona del 1568, dei quali il secondo è rivolto al curatore della silloge Ottavio Sammarco9. L’importanza che la Malipiero sembra occupare nella scena lirica, con un complesso di 40 testi pubblicati tra il 1559 e il 1568, non si rispecchia, tuttavia, in un’altrettanta consistenza di fonti documentarie, sebbene l’autrice provenisse da una delle famiglie più importanti del patriziato veneziano del XVI secolo10.

Il profilo più completo che si ha a disposizione poggia sulle testimonianze raccolte dallo storico ottocentesco Emmanuele Antonio Cicogna, il quale ci riferisce che la Malipiero doveva essere figlia di un patrizio veneziano e legata alla famiglia dei Pisani per parte materna11. La madre, una «figliuola di Alessandro Pisani», si era infatti sposata con Leonardo Malipiero attorno al 1535, data alla quale lo storico associa la nascita dell’autrice. Secondo le testimonianze, la Malipiero ricevette una buona educazione, dimostrandosi «singolare nelle lettere latine, eccellente nelle volgari, sentenziosa nel parlare» e «dotta nelle principali lingue»12. Non pare strano, allora, che tra le poesie delle Rime di donne figuri anche una delle poche sestine dell’antologia, simbolo di per sé di maestria e pregio compositivo. Cicogna aggiunge, inoltre, ma senza ulteriori specificazioni, che i suoi versi venivano letti nelle sale accademiche e che questa portasse come «geroglifico» il simbolo dell’Albero della vita del Paradiso terrestre, «sotto al quale stava piangendo, col motto di S. Paolo: Noli altum sapere (non voler saper il sublime)»13. Lo storico non aggiunge molto altro, e ci informa che l’autrice trascorse parte della sua vita a Firenze per poi ritornare a Venezia solo negli ultimi anni. Questi riporta una morte in giovane età, «soffrendo la febbre per dieci giorni», avvenuta nella villa di famiglia presso la parrocchia di San Marziale14.

Lo spaccato fiorentino è certo il punto nodale della vicenda biografica della Malipiero, a cui viene dato particolare risalto anche da Domenichi nelle Rime di donne. Fin dal primo sonetto antologizzato, infatti, la Malipiero si ritrae come una donna rincorsa dalla sfortuna e lontana dalla sua patria natia: in mezzo a un mare in tempesta «di gioia priva, et di duol carca» (167. 7), la Malipiero specifica che è ormai trascorso «d’un lustro un terzo» (190. 1), e cioè più di anno e mezzo, da quando, come «stanco nocchiero» (v. 5), si è allontanata dalle coste della sua Venezia. Domenichi, a sua volta, in un sonetto in risposta all’autrice, la ritrae come una donna incalzata dalla mala sorte che descrive essere stata particolarmente «iniqua, e fella» (196. 1), concludendo con la speranza che la città riesca a rendere a Leonardo Malipiero, padre dell’autrice, «honore, e festa / […] e gli dia gli ori, et gli ostri / debiti al molto suo senno, e bontade» (vv. 9-10). Queste poche righe tratteggiano, quindi, i contorni di un affare di famiglia che, all’altezza del 1559, continuava ad essere irrisolto. Come vedremo, il canzoniere della Malipiero si compone di una consistente quantità di rime celebrative rivolte per lo più a Cosimo I de’ Medici e ad esponenti della dirigenza fiorentina, nella speranza che questi potessero agire da intermediari per un possibile rientro in patria della famiglia.

Nel cercare di far luce sulla vicenda, le motivazioni dell’esilio rimangono tutt’altro che chiare. Se non dei motivi, si ha per lo meno testimonianza estesa delle richieste di protezione indirizzate direttamente dal padre Leonardo a Cosimo I. Nel carteggio del Duca, infatti, sono presenti una decina di lettere autografe scritte dal veneziano. La più antica risale al maggio 1557, nella quale questi, rendendo conto dello stato di miseria in cui versava, chiedeva a Cosimo la cortesia di un sussidio di mantenimento15. In un’altra lettera scritta nel maggio 1562 da Roma, il Malipiero supplicava il Duca di un «breve», ovvero di uno scritto da presentare all’attenzione del Papa in merito al proprio caso:

Fin hora non ho potuto haver altro, però ho voluto ricorrere a V. ecc.za in quella maggior humiltà, et riverentia, ch’io debbo, et supplicarla con tutto l’affetto dell’anima mia, […] che ancor questa volta, et in questa così importante occasione si voglia, degnare per gratia speciale scrivere sopra ciò […] et […] che voglia a Nome di V. ecc.za procurare d’havere il detto breve, ch’io sono assicurato […] e che sua S.tà conosca che ella lo desidera senza dubbio alcuno […] e debbo fermamente sperare che havendomi V.ecc.za fatto tanto bene si degnerà per virtù della sua grandezza farmi anco questo, il quale mi darà la vita, l’honore e la patria, la moglie et figli et questa sarà opera grandissima a Dio16

All’altezza del 5 giugno 1562 la ricerca d’aiuto continuava:

In gratia a sua S.tà questo breve che è solito farsi ogni volta che da invero si vuole ottenere una gratia et sono assicurato che vostra […] l’otterrà senza dubbio alcuno col quale io mi condurrò libero et allegro nella mia desiderata patria nella quale io son sicuro di non morir ingrato al mio Signore e in questo fine le bacio humilmente la mano17

A riscontro di ciò, e a conferma della macchina diplomatica messa in moto dal Malipiero, si trovano stampate altre due lettere scritte dal Cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Cosimo I, al Cardinale S. Giorgio Giovanni Antonio Serbelloni, e al Papa Pio IV, quest’ultima datata 156118. Nella prima, Giovanni de’ Medici prega il Cardinale di protezione e raccomandazione per conto del Malipiero, descrivendolo come «gentiluomo molto percorso dalla mala fortuna». La seconda, datata 20 aprile 1561, è direttamente rivolta a Pio IV in «aiuto e sollevamento delle […] miserie» del Malipiero, per conto di Cosimo I. Come si evince dai sonetti di scambio con Giulia Premarini, l’autrice doveva trovarsi ancora a Firenze nel 1565 e, secondo le testimonianze di Cicogna e dei Necrologi sanitari, riuscì a tornare in patria solamente a poca distanza dalla sua morte. Seppur non rimangano molte altre testimonianze, e la vicenda manchi di alcuni pezzi fondamentali per la realizzazione di un quadro completo, l’esilio, la lontananza e le speranze nutrite nella famiglia Medici sono i fatti salienti che caratterizzano la vicenda biografica dell’autrice e che sembrano riflettersi con un peso specifico nella produzione poetica arrivataci.

2. Note stilistico-tematiche

2.1 Linee di un’autobiografia lirica: dalla «stanca navicella» ai sonetti celebrativi di casa Medici

La sezione dedicata alla Malipiero è comprensiva di trentatré poesie che si dividono tra testi autobiografici, celebrativi, funerei e religiosi. La formazione dell’autrice, che Cicogna descrive essere stata dotta e umanistica, trova riscontro in una particolare attenzione a temi classicheggianti, come l’amicizia e la fugacità della vita, dimostrando un attento uso del mito classico, del Canzoniere e delle esperienze liriche coeve, come la produzione spirituale di Vittoria Colonna19. In questa prima parte, ci concentreremo sulle poesie che delineano, tra le righe, tracce delle peripezie biografiche rilevate nel paragrafo precedente. In questo modo, si spera di dimostrare un intreccio a più livelli tra dimensione lirica e accorto riuso del modello petrarchesco in chiave politico-sociale.

Il sonetto «Quanto lontan mio basso ingegno varca» (167) apre il profilo della Malipiero su di una tonalità marinaresca, configurandosi quale accessus proemiale alla lettura dei testi successivi:

Quanto lontan mio basso ingegno varca

dal mar profondo di quel saper vero,

che l’huom, quantunque chiuso in picciol’ arca,

tien vivo in questo, e nell’altro Hemispero;

Tanto alla fragil mia spalmata barca

Nettun si mostra più sdegnoso, e fero:

onde di gioia priva, e di duol carca

il porto riveder’ homai despero.

Ma se tu sacro Apollo, un vivo raggio

mi porgi, spero co ’l tuo chiaro lume

volger’ in dritto ’l torto mio viaggio;

E fuor del pigro usato mio costume,

cantando a’ pie’ d’un bel lauro, o d’un faggio,

ergermi lieta, u’ l’alma hor non presume.

L’io lirico si descrive nel mezzo di un «torto viaggio» (v. 11) al timone di una «fragil […] spalmata barca» (v. 5) verso la quale Nettuno si mostra noncurante, se non «sdegnoso, e fero» (v. 6). La tradizione metaforica della vita quale tempesta e tormenta ingovernabile deriva dalle scritture bibliche, e trova canonizzazione nella lirica grazie alle successive rielaborazioni dantesche e petrarchesche sul tema. In particolare, la rima «barca : carca» (vv. 5, 7) ricalca perfettamente quella delle terzine di RVF 132:10 «Fra sì contrari venti in frale barca ǀ mi trovo in alto mar senza governo ǀ sì lieve di saver, d’error sì carca»20 e il sintagma ebbe grande fortuna nella lirica cinquecentesca, utilizzato, ad esempio, in uno dei sonetti marinareschi più famosi di Vittoria Colonna, «Oh che tranquillo mar, che placide onde» (A1:9.2), e nella canzone A1:89 della stessa21.

A differenza della riscrittura petrarchesca e colonniana, tuttavia, la Malipiero non lega la tempesta a sfondo del proprio sconforto a cause amorose, quali l’assenza di autocontrollo, come nel caso di Petrarca, oppure dell’amato, come nel caso della Colonna. Se nel sonetto A1:9 quest’ultima trovava conforto nello scorgere in lontananza la luce del proprio D’Avalos («ma l’alma ancor sua tramontana scorge»), per la Malipiero la soluzione risiede altrove, alla radice della poesia. Nelle terzine, infatti, il sonetto procede lungo quella che sembra essere una vera e propria invocazione agli dei e Apollo, dio del sole e della poesia, è chiamato a volgere il «chiaro raggio» per porre finalmente fine al «torto viaggio» dell’io (v. 11). Anche nelle terzine, le tessere petrarchesche sono presenti in abbondanza: la tripla rima «raggio : viaggio : faggio» (vv. 9, 11, 13) si ritrova, ad esempio, in RVF 23 e 54. Di nuovo, a differenza del modello petrarchesco, il dolore non si riferisce all’esperienza amorosa o alla costrizione morale che determina il rigetto della passione terrena: il «sacro» Apollo è chiamato infatti ad essere propizio al viaggio poetico che renderà modo all’io di ergersi «u’ l’alma hor non presume» (v. 14), e di poter arrivare a propria destinazione nel fidato «porto» (v. 11).

Il motivo marinaresco, come metafora dei tormenti a cui l’io si sente soggetto, percorre anche i sonetti successivi, come in 184.1-4, 190 e 195. Nel sonetto 184, ad esempio, ritorna l’immagine della tormenta: mentre il «corso fatal non cessa ancora» (v. 1), l’io è uno «scoglio» in mezzo al mare, determinato dalle sorti di un «instabil variar» che rende vana ogni possibilità di approdare alla meta. Il sonetto 196, in particolare, è una preghiera di ascolto indirizzata a Domenichi nella quale l’autrice utilizza, di nuovo, il motivo della «stanca navicella» quale rappresentazione della propria sfortuna (v. 5) invocando Tritone ed Eolo ad esserle magnanimi:

Così benigno il cielo, e ogni stella 
si mostra a me nel varcar di quest’onde, 
e Triton, che pur fugge, e si nasconde, 
scacci col dolce suon l’altra procella: 
E a questa mia stanca navicella 
sgombri la nebbia, che d’ambe le sponde 
la cinge, e porga a’ miei desir seconde 
Eolo l’aure in questa parte, e in quella. 
E di Triton l’amica homai sia desta 
e lieto in Oriente si dimostri, 
Febo, e mi scorga a l’alme mie contrade 
Sì come in voi, Domenichi, s’inesta 
tal’e tanto saper, ch’a gl’anni nostri 
porterà invidia ogni futura etade. 

Come nel sonetto proemiale, nelle terzine, ricompare la figura di Apollo, chiamato ad illuminare la via verso le «alme […] contrade» (v. 11), ovvero le agognate contrade veneziane e, accanto a questi, si affianca anche Domenichi, chiamato in soccorso quale intermediario della voce poetica presso il Duca di Firenze.

L’intreccio con la vicenda biografica, quindi, infonde nuova linfa alla filigrana petrarchesca e alle immagini che tramano la simbologia della navigazione: Apollo non dovrà essere propizio al solo viaggio lirico, ma anche a quello del ritorno in patria. Il sonetto 190, infatti, già citato in precedenza, si erge quale canto di dolore verso la cara «Vinegia» (v. 3). Nel sonetto, i motivi dell’esilio si intrecciano al linguaggio amoroso dei sonetti d’anniversario petrarcheschi:

D’un lustro un terzo è già passato intero, 
che da te lungi, e mesta ognor soggiorno, 
Vinegia mia, né mai visto ho più giorno 
da indi in qua se non malvagio, e fero. 
Come affannato in mar stanco nocchiero, 
cui stringa oscura notte d’ogn’intorno, 
brama di pigliar porto, e far ritorno 
al desiato suo dolce Hemisfero: 
Tal’io vorrei l’altrui lido lasciare, 
e ’l dubbio navigar delle trist’onde, 
ed in te amata patria il cor posare. 
Onde mai sempre liete aure seconde, 
prego, mi scorghin fide al dolce Mare, 
che felice ti cinge ambe le sponde. 

La figura dello «stanco nocchiero» (v. 5), inoltre, ci rimanda certo ai versi di RVF 151.2, anche se, mentre nel primo caso l’arrivo alla meta coincide con il ricongiungimento del poeta con Laura, nel sonetto della Malipiero l’oggetto del desiderio corrisponde all’abbraccio dei lidi che cingono la laguna veneziana (12-14).

Spesso incrociata con la vicenda biografica, la poesia celebrativa occupa uno spazio centrale nella sezione poetica assegnata alla Malipiero. Già a partire dal secondo sonetto antologizzato (168), l’autrice rivolge le proprie lodi a Cosimo I, che in quegli anni agiva da fulcro fondamentale nelle trattative diplomatiche tra gli stati della penisola. Le lodi al Duca vengono paragonate ad un atto di hybris, simile al volo osato da Icaro verso il sole. Al gran «Cosmo» sarebbe più adatta, infatti, una tromba celeste, scesa appositamente dal cielo per cantare le sue imprese: il Duca, apostrofato quale «Invitto duce […] dal cielo eletto / per salute di Etruria» (vv. 1-2), era proprio quel Cosimo che nel 1555 portava sulle spalle le insegne senesi della città appena conquistata, ed era in procinto di espandere i propri domini sul resto della Toscana22. Nelle dinamiche dell’antologia, i sonetti in gloria a Cosimo trovano, non a caso, attenzione specifica data dal fatto che Domenichi stesso stava lavorando alla compilazione di una Historia della guerra di Siena che gli aveva valso il ruolo, nel 1559, di storiografo ufficiale della corte medicea23.

Cosimo è protagonista anche del sonetto 181, che riportiamo per il profondo sostrato dantesco e la cura stilistica adottata dall’autrice. Le prime due quartine si aprono, infatti, con un’invettiva contro i «malvagi venti» che nascono dalla «trista radice» della discordia e contro la «progenie maligna» che, come un cavallo senza freno, si scaglia senza giudizio «ove non lice» (1-8):

Malvagi venti, e da trista radice

mossi, soffian ver noi sabbia, e veleno,

ma ’l saggio petto di giudicio pieno,

da colombi discerne la cornice.

Ahi progenie maligna, e infelice,

che d’ogni mal’ oprare ha colmo ’l seno,

e a guisa di destrier, ch’è senza freno

si lascia trasportar’ ove non lice;

Ma miri ben, ch’il ciel tutt’ode, e vede;

ch’il muglio di Perillo rinovare

non forse voglia in loro, e bene sia

Che troppo alto erra qualunque si crede,

del gran Cosmo l’orecchie penetrare,

con dissonanze, in vece d’harmonia.

L’immagine topica del cavallo senza freni richiama certamente l’invettiva di Sordello nel canto VI del Purgatorio (6.91-96) nella quale l’Italia è descritta, tra le varie immagini utilizzate, proprio come destriero totalmente ingovernabile24. Nella prima terzina, la Malipiero utilizza un’altra similitudine, questa volta piuttosto preziosa, augurando a quella «progenie maligna» la stessa sorte riservata all’inventore del toro di Falaride, strumento di tortura dalla forma taurina, inventato e progettato in modo tale che i lamenti del condannato venissero tramutati in voci animalesche. Il toro di Falaride è spesso indicato come massima espressione di crudeltà umana poiché il suo inventore, l’ateniese Perillo, fu costretto a sperimentarlo per compiacere alla volontà del tiranno di Agrigento Falaride che lo aveva commissionato. L’immagine, non petrarchesca, era stata utilizzata invece da Dante nella descrizione della fiamma che avvolge l’anima di Guido da Montefeltro nel canto XXVII dell’Inferno (27.7-15), nel girone che ospita, per l’appunto, i consiglieri fraudolenti, una categoria che forse aveva giocato, e continuava a giocare, un ruolo importante nella vicenda della famiglia Malipiero25. Alla base della similitudine dantesca, la critica ha segnalato un forte sostrato ovidiano, citando, in particolar modo, i versi dell’elegia 11 del terzo libro dei Tristia (vv. 39-54), nei quali si paragona la crudeltà di chi oltraggia la sorte dell’autore a quella di Falaride. Non è da escludere che le lamentationes ovidiane, che trattano per esteso del periodo d’esilio del poeta latino dalla sua Roma, fossero state una delle possibili letture della poetessa.

Il motivo dell’inganno e della speranza in una giustizia prossima è ripreso, con insistenza, anche nel sonetto che segue (182): la «salda fede» continua ad essere messa alla prova, infatti, da chi «di tristitia è fonte» (vv. 1, 6). In virtù della posizione del sonetto, che è immediatamente successivo alla preghiera a Cosimo, si può ipotizzare una convergenza simbolica tra il «sublime alto Signore» dei cieli, da cui dipenderà il trionfo del «ver» (v. 10) su ogni «falsità» (v. 11), e il ruolo, in terra, del Duca stesso a cui era dedicato il sonetto precedentemente incontrato:

Se l’immutabil nostra salda fede, 
qual’è nel cor, tal si scorgesse in fronte, 
forse direbbe ognun gli scogli, e ’l monte. 
non ci por di fermezza inanzi ’l piede, 
Ma sendo il petto chiuso, altro si crede 
e ne è cagion chi di tristitia è fonte, 
pensando sempre ’l ciel suoi inganni, ed onte 
sofferir debbia; e mal certo prevede; 
Fate dunque, sublime alto Signore, 
che ’l ver, qual’ei si sia, si scuopra tale, 
onde ogni falsità caggia in ruina; 
Vedrete allhor sì come all’immortale 
vostr’alto nome ogni altro cede, e inchina, 
ceder’ al nostro ogni sincero core. 

La celebrazione della dinastia fiorentina prosegue nel sonetto 169, il terzo della silloge, indirizzato a «Leonora» (v. 14), molto presumibilmente Eleonora di Toledo, prima moglie di Cosimo I, definita in incipit quale «alma Real» e superiore in virtù alle grandi regine dell’antichità. Il sonetto successivo (170) è rivolto, invece, a Costanza Baglioni, sposa del braccio destro di Cosimo, Rodolfo Baglioni, fedelissimo di Firenze e coinvolto nelle guerre di Siena a capo della cavalleria ducale26. Il sonetto 171 è dedicato ad un’altra dama fiorentina, apostrofata con reminiscenza petrarchesca quale «spirto gentil» (RVF 53.1), dal nome Francesca, e definita quale «del bel paese Tosco eterno onore» (v. 11). Momenti di lodi accorate possono intrecciarsi anche ad eventi specifici, come nel caso della celebrazione del matrimonio tra Lucrezia de’ Medici, figlia di Cosimo, e Alfonso II D’Este, duca di Ferrara, avvenuto nel 1558, data a cui possiamo riferire la composizione del sonetto 193. Il «santo nodo» a cui si riferisce il v. 9 non solo salvaguarderà Firenze dai pericoli della guerra, ma restituirà pace all’Italia intera. Grazie all’unione di Lucrezia e Alfonso II, la città di Ferrara, infatti, non dovrà più temere le ingerenze esterne dei poteri francesi e spagnoli (vv. 1-2), essendosi congiunta, attraverso il matrimonio politico tra le due parti, al «gran duce Toscano» garante di «sempiterna pace» (vv. 3, 10). La celebrazione della futura dinastia medicea chiude, simbolicamente, la sessione poetica della Malipiero con i sonetti 198 e 199. Nel primo, infatti, la metafora del Sole, utilizzata quale simbolo dell’amato, è qui sintesi dello splendore di Cosimo che illumina dall’alto, in una posizione di dominio ormai consolidato, le rive dell’Arno. Nel sonetto 199 si celebra, invece, la terzogenita e ultima figlia di Cosimo e Eleonora di Toledo, nata nel 1542 e promessa sposa di Paolo Giordano I Orsini, duca di Bracciano, nel 1553. Eleonora è salutata quale simbolo di una rinnovata età dell’oro che «tornerà il mondo, e i dì lieti, e contenti» (v. 14).

2.2 I sonetti religiosi: il sacrificio di Cristo e la «smarrita fede»

I sonetti spirituali occupano un parte consistente delle rime della Malipiero, animati da una religiosità fortemente cristocentrica: la triade 186, 187 e 188 è legata alla celebrazione di Cristo in croce, unica via di salvezza a cui può tendere l’anima. La focalizzazione tematica verte, quindi, sui momenti della Passione, punto focale delle riflessioni dell’io. Il sonetto 186, primo della serie, ripercorre fedelmente le tappe del sacrificio di Cristo, dalla crocefissione fino all’assunzione in cielo che apre le porte dei cieli all’umanità:

L’infinita bontate, il vero amore, 
a cui del fallir nostro increbbe, e calse, 
che per trarci di pene Ei scese, e salse 
sul legno, c’hora è gloria, e già fu horrore; 
Le tenebre scacciò co ’l suo splendore, 
ruppe l’abisso, che schermir non valse; 
e chi di speme in lui tant’arse, e alse, 
fuor seco trasse con supremo honore. 
Poi il sacro vel ripreso, e la smarrita 
fede più accesa, consolò i cuor mesti 
rimasti al suo partir privi di luce. 
Hoggi vittorioso e invitto duce 
il cielo ascende, e fra spirti celesti 
a seguitarlo ivi ne chiama, e invita. 

In un crescendo di immagini, le prime due quartine si concentrano sul momento cruciale della morte che, rielaborando le parole di Giovanni, è descritta nei termini di un’intensa lotta tra luce e tenebre (vv. 5-6). La speranza torna però a consolare «i cuori mesti» (v. 10), una volta che Cristo, risorto, si riappropria del «sacro vel» e ascende al cielo a quaranta giorni dalla sua morte. L’incipit dell’ultima terzina indica al lettore, con cambiamento temporale dal passato al presente, la ragione del sonetto: chi scrive sta infatti celebrando proprio la festa dell’assunzione, il giorno nel quale Cristo «vittorioso e invitto duce / il cielo ascende» e «chiama, e invita» le anime terrene a seguirlo nel suo viaggio. Con il sonetto 186 si enucleano sia i temi che il linguaggio figurativo che faranno da trama ai due sonetti successivi: la «speme», il «legno» e il «sangue» della Croce sono il fil rouge che attraversa le meditazioni dell’io. Senza voler accostare l’esimia produzione della Malipiero ai dibattiti religiosi che l’avevano di poco preceduta, sembra però legittimo sottolineare come il linguaggio e le tematiche utilizzati dall’autrice guardino ad alcuni nuclei concettuali affrontati proprio dalla Colonna delle rime spirituali. La stessa Marchesa annunciava, nel sonetto posto tradizionalmente a proemio della sua produzione spirituale (S1), i termini cardine della propria rinnovata poetica:

I santi chiodi omai sieno mie penne,

e puro inchiostro il prezioso sangue,

vergata carta il sacro corpo exangue,

sì ch’io scriva per me quel ch’Ei sostenne.

Non più la penna, l’inchiostro e la carta, ma i «santi chiodi», il «prezioso sangue» e il «corpo exangue» di Cristo sono eletti a strumenti ed esclusivo oggetto di poesia. La cosiddetta edizione Valgrisi delle rime della Marchesa, stampata nel 1546 per i tipi di Donato Rullo, è unanimemente considerata una pietra miliare nella tradizione della circolazione a stampa della produzione spirituale dell’autrice27. L’edizione del ’46, infatti, concentrava al suo interno una cospicua silloge di rime spirituali mai stampate in precedenza e organizzata secondo nuclei tematici ben definiti che diedero forma alla ricezione delle rime spirituali colonniane28. La selezione dei testi della Marchesa operata da Domenichi nelle Rime di donne guarda con attenzione ad una Colonna teologicamente coinvolta nei dibattiti passati, antologizzando sonetti focalizzati sul valore della Vergine, di Maria Maddalena e del libro della Croce quale unico mezzo di salvezza cristiana29. Secondo la Colonna, infatti, non con le opere, ma solo attraverso l’umiltà della fede si può sperare nella salvezza, concessa solo ed esclusivamente dalla volontà divina (S1 87. 4-8)30:

Con la croce, col sangue, e col sudore,

con lo spirto al periglio ogn’hor più ardente,

e non con voglie pigre, e opre lente

dee l’huom servire al suo vero Signore.

Al tema della resurrezione, la Malipiero dedica l’intero sonetto 187, celebrando il giorno del Venerdì santo attraverso una serie di metafore che richiamano i simboli della più antica tradizione cristiana31:

Hoggi ’l celeste Pelicano il petto 
sacro s’aperse, e die’ col sangue vita 
a’ figli, e hoggi la bontà infinita 
ci die’ ’l gran saggio del suo amor perfetto; 
Hoggi nuova Fenice arse d’affetto 
amoroso nel legno, hoggi sbandita 
fu morte e hoggi la gratia smarrita 
trovò mercede nel divin conspetto. 
Vero hoggi Cigno si mostrò col canto 
dolce e estremo, ch’a pietà commosse 
il ciel, la terra, gli elementi, e ’l mondo; 
Hoggi è quel Serpe celebrato tanto, 
ch’ in Lui mirando del nemico scosse 
fur l’empie forze, e ei tratto al profondo. 

Nella prima triade si susseguono le immagini del pellicano, della fenice e del cigno che incarnano, con diverse simbologie, Cristo risorto dalla morte e vincitore sul male. In particolare, l’immagine del «celeste Pelicano» che, lacerandosi il petto, permette ai suoi figli di nutrirsi del suo sangue non è di tradizione petrarchesca, ma simbolo biblico dell’eucarestia nonché allegoria del supremo sacrificio divino32. Il pellicano, nell’arte figurativa, è anche il animale comunemente rappresentato al di sopra della croce di Cristo. Non è da escludersi che la Malipiero potesse aver presenti rappresentazioni visive del pellicano in tale contesto, a maggior ragione del fatto che, secondo la testimonianza di Cicogna, questa stessa sembrava aver legato il proprio simbolo poetico all’immagine dell’Albero della vita33. Come il sonetto che lo precede, il testo è trapuntato dello stesso lessico cristologico: rimangono centrali le immagini del «sangue», del «legno» e della «gratia» che, attraverso il sacrificio di Cristo, trova finalmente «mercede nel divin cospetto» (v. 8).

A conclusione della triade, il sonetto 188 si configura come un itinerarium mentis in Deum nella prefigurazione della morte quale agognata unione al divino:

Mentre la luce ne la luce l’alma 
per mirar s’erge, da terreno il lume 
resta impedito sì, ch’in nuove piume 
brama cangiar questa noiosa salma. 
O vera sempre eterna fida, e alma 
via, che ci inviti a quel celeste fiume, 
dove troppo erra chi in altra presume 
ritrovar di salute pregio, o palma. 
Empireo Rege, il cui decoro è tale, 
che l’angeliche menti il tuo splendore 
in sé mirando accese, e in dolce foco, 
leva ancor noi nel tuo soave odore, 
onde giù caschi ogni desir mortale, 
e tosto; che ’l qui star, fia breve, e poco. 

La prima quartina insiste e si concentra sul tema della luce in un gioco di rifrazione rimica e semantica. In questa cornice luminosa, il mito della fenice viene ripreso e rielaborato ai vv. 2-3. L’anima, infatti, è in attesa di tramutare la propria «noiosa salma», termine presente anche nelle rime amorose colonniane (A. 47:3), in «nuove piume» attraverso la morte (vv. 3-4). Lo splendore e il sole di Cristo sono il conforto di un io che brama ardere nel «dolce foco» (v. 11) della grazia divina e nel «soave odore» che la circonda (vv. 11-12). Una forte influenza scritturale informa anche l’immagine di chiusura della seconda terzina: il profumo «soave» del v. 12 rimanda infatti alle lettere di Paolo e al sacrificio di Cristo in croce: «Siate dunque imitatori di Dio quali figli diletti e camminate nella carità, come anche Cristo ha amato voi e ha dato se stesso per noi quale offerta e sacrificio di soave odore a Dio»34. Il tono misticheggiante e l’organizzazione del sonetto quale itinerarium mentis possono ricordare, anche i temi delle fortunate Lettere che Vittoria Colonna scrive alla cugina Costanza d’Avalos, stampate nel 1544 e riproposte l’anno successivo35, incentrate sulla ricerca interiore della verità, il rifiuto dei beni terreni, l’assoluta abnegazione a Cristo e, soprattutto, il valore fondamentale dato all’esperienza individuale della fede. Queste riflessioni influirono certamente nei cinque sonetti mistici della d’Avalos che apparirono, per la prima volta, in appendice all’edizione ’58 delle rime della Marchesa e vennero inglobati successivamente da Domenichi nelle Rime di donne36.

2.3 Una galleria di voci femminili: i sonetti in morte

La speranza nella morte, la grazie divina, lo sprezzamento e le riflessioni sulla fugacità della vita terrena sono aspetti rielaborati anche in una serie di testi in morte indirizzati ad alcune figure femminili (o ad una stessa) delle quali non viene rivelato il nome, e che fanno da espediente dialogico nei sonetti 173-78 e nella sestina 179. Allo stesso modo in cui Petrarca ricercava solitario e invano tracce delle «piante» (RVF 108.3, 204.8) e delle «luci sante» (RVF 350.14) di Laura, nel sonetto 174 l’io ricerca «l’orme de le belle piante […] che le luci sante saliro in ciel, dove più duol non sorge» (vv. 2-3). Il rapporto in morte tra Laura e Petrarca è ricalcato, oltre che dalle numerose tessere petrarchesche che ornano le chiuse dei versi, anche dalle modalità con le quali l’elemento dialogico viene adottato. Come nelle visioni petrarchesche, anche la defunta si rivolge all’io, dall’aldilà, per consolarlo attraverso parole che rielaborano il tema della fugacità della vita in chiave cristiana (174. 9-13):

Allhor ella risponde: «Il tempo vola: 
non vaneggiar, c’hor nevi, hor fiori suole 
coprir la terra, e non ci è stabil sorte. 
Fu mia beltà nel mondo unica, e sola, 
hor che si faccia terra, a me non duole, 
che per ottima parte elessi morte»

Il sonetto 175 si apre, invece, su uno scenario apocalittico, sottolineato stilisticamente dal ritmo calzante dell’asindeto e dalla concentrazione progressiva di enjambements in tutta la seconda quartina. Alla morte della donna, questa volta, non solo l’io ma tutto il mondo, per un attimo, ferma il proprio corso. In questo susseguirsi caotico di eventi, che ricordano quasi lo sconvolgimento cosmico della morte di Cristo, e di Laura nei RVF, un coro disperato prende la parola e lamenta dantescamente la propria solitudine. Come a una «greggia smarrita in valle oscura», infatti, «la dritta via», rappresentata dagli occhi della donna, sembra del tutto svanita con la sua morte (10-14):

«Che fia di noi? Che senza lei rimasti 
siam qual greggia smarrita in valle oscura? 
Chiudendo tu quelle due luci honeste, 
crudele invida morte; a noi troncasti 
la dritta via, ch’al ciel’ ir n’assicura» 

Il motivo tragico informa anche il sonetto 178, tra le cui righe si immagina un gruppo di donne unite nel dolore a causa della perdita di una conoscente. Ancora una volta, la defunta prende parola nelle terzine, definendo la morte «amica» (v. 14), in quanto salvezza e ponte verso la vita vera, cioè la vita celeste.

3. Un mini-canzoniere?

Sebbene i momenti di rielaborazione dei RVF, come abbiamo potuto vedere in questa rassegna tematica, siano molteplici e attraversino le varie tessere che contraddistinguono il percorso lirico dell’autrice, l’amore e gli struggimenti amorosi rimangono i grandi assenti della silloge malipierana. Non trovano spazio, infatti, poesie d’affanno contrito per una mancata corrispondenza, o per la morte dell’amato. Gli occhi e il “sembiante” del proprio “Signore” non sono oggetto di canto o di malinconico ricordo. Come si evince dal sonetto proemiale, a differenza del viaggio petrarchesco, il viaggio poetico non si colloca tra i flutti e le tormente d’amore ma è sostanziato dai connotati del reale, ovvero dalla lontananza dalla patria natia. Il tema dell’esilio, quello della fede e del rifiuto dei beni terreni sono i punti cardine delle liriche fin qui esaminate, e che ricorrono anche in altri momenti dell’antologia, che sembra sensibile, nel suo complesso, a dare voce anche a poesie di impianto politico, biografico e di denuncia dell’imperante clima bellico del tempo.

Il petrarchismo delle Rime di donne, infatti, può assumere i tratti di un linguaggio seduttivo, elegante e cortigiano, e rifrangersi in temi desueti come le lodi dell’amato e lo struggimento per la sua lontananza. Può però anche soffermarsi in riflessioni religiose decisamente poco ortodosse, come quelle sulla salvezza per sola fide, o adombrare, ad esempio, rivendicazioni politiche sotto le vesti del linguaggio amoroso, come nella silloge di sonetti indirizzati dalla senese Laodomia Forteguerri a Margherita d’Austria. Ancor più, il tema politico emerge nella corposa sequenza riservata a Virginia Martini de’ Salvi, l’autrice con più alto numero di testi antologizzati, baluardo della resistenza senese nelle guerre fiorentine. Certamente, per quanto a volte sia difficile tracciare una netta linea interpretativa tra sonetti amorosi e sonetti spirituali, proprio perché le poesie sono sradicate dal contesto di produzione originario, la lirica amorosa appare, di fatto, solo una delle declinazioni esplorate nell’antologia domenichina. In quest’ottica, ci si chiede, allora, in quale modo si relazioni la silloge malipierana alle Rime di donne e se la dispositio dei suoi componimenti possa rassomigliare ad un percorso canzonieristico, pur nell’assenza di un tradizionale oggetto d’amore. Una delle caratteristiche più stringenti dell’opera, infatti, oltre alla presenza di numerose rime di corrispondenza, è l’inserimento, al suo interno, di mini-canzonieri, cioè di sequenze compositive sotto la rubrica di una singola autrice che mimano la struttura di un percorso lirico37.

Questa scelta editoriale venne probabilmente desunta dal fortunato modello delle Rime di diversi illustri signori napoletani (1552) edite da Dolce pochi anni prima e che, per la prima volta, avevano offerto al lettore un esempio di antologia “specializzata”, concentrata cioè su una certa omogeneità geografica e culturale degli autori prescelti. Come nelle Rime di donne, l’aspetto di aggregazione sociale era stato enfatizzato dall’editore attraverso l’antologizzazione di numerose rime di corrispondenza e di sequenze poetiche più delineate, come il corpus lirico di Luigi Tansillo38.

Nelle Rime di donne, poesie isolate sono bilanciate, quindi, da un cospicuo numero di sequenze liriche che possono seguire le linee di un percorso che va dall’assenza dell’oggetto o della persona amata, al malessere e al pentimento finale della voce poetica39. Non essendoci la possibilità di confrontare la fonte originaria di Domenichi con la lezione a stampa delle Rime di donne, non è possibile ipotizzare e valutare, se non per qualche raro caso, quale sia stato effettivamente il peso della mano del curatore nell’organizzazione finale dei testi. Domenichi non era infatti estraneo alla pratica, come attesta il caso del rimaneggiamento dispositivo dei diciassette sonetti di Bembo nell’antologia giolitina del 1545 o del rimaneggiamento, nelle Rime di donne, delle poesie di Isabella di Morra, la cui complessità lirica è stata illuminata abbastanza recentemente40. Proprio in Isabella di Morra, le cui liriche erano comparse nelle edizioni delle rime napoletane curate da Dolce, i temi della distanza, dell’incomunicabilità e dell’assenza erano stati approfonditi in un percorso di risemantizzazione dell’esperienza amorosa.

Similmente alla Malipiero, infatti, la distanza dal luogo natio e la lontananza della figura paterna emergono quali cardini centrali della sua produzione lirica. Il caso delle rime morriane ha offerto alla scrittura d’autrice uno spettro tematico, e un itinerario lirico, che ha indirizzato il percorso petrarchesco verso una via differente, ponendo al centro la “Fortuna” quale pars agens e causa dello struggimento dell’io. La Fortuna, infatti, entità maligna e antropomorfa che interferisce diabolicamente nella vicenda lirica, è l’argomento principale di discussione annunciato dal sonetto di apertura delle liriche morriane, posto in incipit da Domenichi stesso nella sequenza poetica dell’autrice lucana così come appare nelle Rime di donne. Dal sonetto proemiale, si evince chiaramente che l’oggetto non coincide con l’esperienza amorosa ma, più precisamente, con il racconto di un’autobiografia lirica che, come nel caso della Malipiero, trova, almeno secondo la disposizione e la lettura di Domenichi, serenità nella riflessione religiosa e nel ricongiungimento ad una patria celeste. Nel caso della Malipiero, la figura di Cosimo I svolge un ruolo centrale, non solo come possibilità di riscatto, ma come garante del volere divino in terra. Il Duca, evocato con i tratti del Cristo vittorioso, è forse l’anello che può mettere in relazione la giustizia divina a quella terrena. In questo quadro, il tema della fede costituisce la filigrana che accomuna il profilo del Duca, che apre e chiude la sessione con la sua presenza, alla figura di Cristo che, nel momento dell’assunzione in cielo, vince definitivamente la morte e riporta speranza in chi l’ha ormai perduta.

Seppure non si possa evincere alcun giudizio definitivo sulla produzione lirica della Malipiero, al di là di denotare degli influssi colonniani e una riscrittura del viaggio petrarchesco simile a quella che avviene nelle rime morriane, l’analisi ha voluto aprire uno squarcio sulle voci che animano l’antologia domenichina del ’59 e sull’orchestrazione operata da Domenichi degli itinerari lirici in essa rappresentati.

Note de fin

1 Bettinelli Saverio, Il Parnaso veneziano, Venezia, Stamperia di Carlo Palese, 1796, p. 14.

2 De le rime di diversi poeti nobili toscani, raccolte da m. Dionigi Atanagi, Venezia, Lodovico Avanzo, 1565, cc. 165-165b.

3 Marcozzi Luca, Retorica dell’esilio nel canzoniere di Petrarca, in «Bollettino di italianistica», 2, 2011, pp. 71-93 (p. 83).

4 Marcozzi Luca, op. cit., p. 82.

5 Sugli “oggetti d’amore” e la relazione problematica tra la scrittura d’autrice e il codice petrarchistico, si veda l’articolo di Smarr Levarie Janet, Sobstituting for Laura: Objects of Desire for Renaissance Women Poets, in «Comparative Literature Studies», 38, 2001, pp. 1-30. Il canzoniere della Malipiero sembra inserirsi a buon titolo nel terzo caso di riscrittura linguistica e tematica individuato dalla studiosa: per le poetesse rinascimentali, infatti, «a third solution is to refocus the language of love to address something else altogether» e che può coincidere con «an inhuman object», come accade nelle poesie di Veronica Gambara rivolte alla terra natia (pp. 2, 24).

6 Rime d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne, raccolte per M. Lodovico Domenichi, e intitolate al signor Giannoto Castiglione gentil’huomo Milanese, Lucca, per Vicenzo Busdrago, 1559. Nel corso del contributo si citerà l’opera nella forma abbreviata di Rime di donne. I numeri associati alle poesie della Malipiero rendono conto della loro posizione nell’antologia (n. 167-199).

7 Sull’antologia domenichina si vedano i primi studi di Piéjus Marie-Françoise, «La première anthologie de poèmes féminins: l’écriture filtrée et orientée», in Le Pouvoir et la plume: incitation, controle, et répression dans l’Italie du XVIe siècle. Actes du Colloque international (Aix-en-Provence-Marseille, 14-16 mai 1981), Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1982, pp. 193-213. Seguono, Shemek Deanna, «“The Collector’s Cabinet”: Lodovico Domenichi’s Gallery of Women», in Strong Voices, Weak History: Early Women Writers and Canons in England, France and Italy, a cura di Pamela Joseph Benson e Victoria Kirkham, Ann Arbor, University of Michigan, 2005, pp. 239-262; Cerrón Puga María Luisa, «Vie del Petrarchismo in Italia e in Spagna», in «L’una et l’altra chiave». Figure e momenti del Petrarchismo femminile europeo, Atti del Convegno internazionale (Zurigo, 4-5 giugno 2004), a cura di Tatiana Crivelli, Giovanna Nicoli e Mara Santi, Roma, Salerno Editrice, 2005, pp. 103-131; Vecchi Galli Paola, «Donna e poeta. Metamorfosi cinquecentesche», in Il petrarchismo: un modello di poesia per l'Europa, a cura di Loredana Chines, 2 voll., Roma, Bulzoni, 2006, I, pp. 189-216; Robin Diana, Publishing Women: Salons, the Presses, and the Counter-Reformation in Sixteenth-Century Italy, Chicago e Londra, University of Chicago Press, 2007, pp. 59-71; Scarlatta Eschrich Gabriella, Women Writing Women in Lodovico Domenichi’s Anthology of 1559, in «Quaderni di Italianistica», 30, 2009, pp. 67-85. Il contributo più recente è quello di Robin Diana, «The Lyric Voices of Vittoria Colonna and the Women of the Giolito Anthologies», in A Companion to Vittoria Colonna, a cura di Abigail Brundin, Tatiana Crivelli e Maria Serena Sapegno, Leiden, Boston, Brill, 2016, pp. 137-466 (pp. 455-462).

8 Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo, a cura di Dionigi Atanagi, Venezia, Domenico e Battista Guerra, 1561, cc. 142-144.

9 Tempio della divina Signora Geronima Colonna d’Aragona, a cura di Ottavio Sammarco, Padova, Pasquati, 1568, cc. 93-97.

10 Tassini Giuseppe, Curiosità veneziane, ovvero delle denominazioni stradali di Venezia, quarta ed., 2 voll., Venezia, Alzetta e Merlo, 1886-87, II, 1887, pp. 10-11.

11 Cicogna Emmanuele Antonio, Delle inscrizioni Veneziane, 6 voll., Venezia, Orlandelli e Picotti, 1824-53, V, 1847, pp. 57-58.

12 Cicogna Emmanuele Antonio, op. cit., p. 57.

13 Ivi, p. 58.

14 Secondo i Necrologi sanitari della città di Venezia, invece, la Malipiero sarebbe morta nella chiesa di San Marcuola nel 1569, all’età di 24 anni: «1569, 23 Giugno. La mag.ca madona Olimpia Malipiero venuta morta dalla villa, ma amalata di febre già 10 giorni, d’anni 24 – S. Marcuola». La notizia è riportata per la prima volta da Tassini alla voce S. Marcuola in Tassini Giuseppe, op. cit., p. 429.

15 «Leonardo Malipiero a Cosimo I de’ Medici», Maggio 1557, (ASF, Mediceo del Principato), filza 460, p. 665.

16 «Leonardo Malipiero a Cosimo I de’ Medici», Maggio 1562, (ASF, Mediceo del Principato), filza 493, p. 486.

17 «Leonardo Malipiero a Cosimo I de’ Medici», Giugno 1557, (ASF, Mediceo del Principato), filza 493, p. 775.

18 Lettere del Cardinale Gio. de Medici, figlio di Cosimo I, a cura di Giovanni Battista Catena, Roma, Rossi, 1752, pp. 383-384.

19 I sonetti della Malipiero «Oggi ’l celeste pelicano il petto» e «Privo di stelle ’l cielo e del mar l’onde» sono trascritti e commentati in Lyric Poetry by Women of the Italian Renaissance, a cura di Virginia Cox, Baltimore e Maryland, The Johns Hopkins University Press, 2013, pp. 212, 341.

20 I versi tratti dal Canzoniere di Petrarca (RVF nel corso del contributo) sono tratti dall’edizione critica del Canzoniere, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1974. Per il commento, è stata invece utilizzata l’edizione a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996.

21 Colonna Vittoria, Rime, a cura di Alan Bullock, Roma e Bari, Laterza, 1982. La lezione dei testi e la nomenclatura assegnata alle poesie della Colonna derivano dell’edizione Bullock, pp. 258-323.

22 Cantagalli Roberto, La guerra di Siena (1552-1559), Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1962. Marrara Danilo e Rossi Carlo, «Lo Stato di Siena tra Impero, Spagna e Principato mediceo (1554-1560): questioni giuridiche e istituzionali», in Toscana e Spagna nell’età moderna e contemporanea, Pisa, ETS, 1998, pp. 1-53.

23 Sull’ultima fase della vita di Domenichi, rimando a Bramanti Vanni, Sull’ultimo decennio “fiorentino” di Lodovico Domenichi, in «Schede Umanistiche», I, 2001, pp. 31-48.

24 «Ahi gente che dovresti esser devota,/ e lasciar seder Cesare in la sella,/ se bene intendi ciò che Dio ti nota,/ guarda come esta fiera è fatta fella/ per non esser corretta da li sproni,/ poi che ponesti mano a la predella». Le citazioni alla Commedia sono tratte da: Alighieri Dante, La Commedia, secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, 3 voll., Miano, Mondadori, 1966-67. Il commento critico utilizzato è Alighieri Dante, Commedia, 3 voll., a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991-97.

25 «Come ’l bue cicilian che mugghiò prima/ col pianto di colui, e ciò fu dritto,/ che l’avea temperato con sua lima,/ mugghiava con la voce de l’afflitto,/ sì che, con tutto che fosse di rame,/ pur el pareva dal dolor trafitto/ così, per non aver via né forame/ dal principio nel foco, in suo linguaggio/ si convertïan le parole grame». Tra le fonti citate dai commentatori, oltre ad Ovidio, anche Orosio e Valerio Massimo. Alighieri Dante, Commedia, op. cit., I, 1991, p. 804.

26 Argentini Bertoni Luisa, «Baglioni, Rodolfo», Dizionario biografico degli Italiani, XV, 1972, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, pp. 246-247.

27 Per gli intricati studi sulla circolazione, ricezione e tradizione filologica delle rime della Colonna si vedano gli eccellenti contributi riuniti nel volume A Companion to Vittoria Colonna, op. cit. Sulla circolazione a stampa e, in particolare, per un’analisi dettagliata dell’edizione Valgrisi, si rimanda al contributo di Crivelli Tatiana, «The Print Tradition of Vittoria Colonna’s Rime», ivi, pp. 69-139 (pp. 120-124).

28 Sul peso della tematica cristocentrica nell’edizione vadesigriana, Russell Rinaldina, L’ultima meditazione di Vittoria Colonna e l’Ecclesia Viterbensis, «La parola del testo. Semestrale di filologia e letteratura italiana e comparata dal medioevo al rinascimento», 4, 2000, pp. 151-166.

29 Brundin Abigail, Vittoria Colonna and the Virgin Mary, «Modern Language Review», 96, 2001, pp. 61-81; Ead., Vittoria Colonna and the Poetry of Reform, «Italian Studies», 57, 2002, pp. 61-74; Ead., «Marian Prose Works», in Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics of the Italian Reformation, Aldershot e Burlington, Ashgate, 2008, pp. 133-154. Le osservazioni sono riprese brevemente da Robin Diana, «The Lyric Voices», op. cit., p. 461.

30 Enfasi mia.

31 Lyric Poetry, op. cit., p. 212.

32 Dante, Paradiso XXV.112-14, «Questi è colui che giacque sopra ’l petto/ del nostro pellicano, e questi fue/ di su la croce al grande officio eletto». L’immagine è utilizzata nella descrizione dell’episodio evangelico nel quale si racconta che Giovanni, durante l’ultima cena, avesse appoggiato il capo sul petto di Cristo.

33 Tra le tante rappresentazioni, il pellicano figura nella tavola dell’Albero della vita conservata nella Galleria dell’Accademia di Firenze ma che, dal 1531, andava a far parte della collezione delle Clarisse di via Malcontenti. Marcucci Luisa, Gallerie Nazionali di Firenze. I dipinti toscani del secolo XIV, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1965, pp. 20-22.

34 Ef. 5, 1-2. Enfasi mia.

35 Litere della divina Vetoria Colona Marchesana di Pescara a la Duchessa de Amalfi sopra la vita contemplativa di Santa Caterina e sopra de la activa di santa Madalena, Venezia, Alessandro del Viano, 1544. Poi ristampate nel Nuovo libro di lettere de i più rari auttori della lingua volgare italiana, di nuovo, et con nuova additione ristampato, a cura di Paolo Gherardo, Venezia, Gherardo, 1545.

36 Queste riflessioni influirono certamente nei 5 sonetti mistici della d’Avalos che apparirono per la prima volta in appendice all’edizione ’58 delle rime della Marchesa, curata da Ruscelli, inglobati successivamente da Domenichi nelle Rime di donne. Tutte le Rime della Illustriss. et Eccellentiss. Signora Vittoria Colonna, Marchesana di Pescara. Con l’Espositione del Signor Rinaldo Corso, nuovamente mandate in luce da Girolamo Ruscelli, Venezia, Giovan Battista et Melchior Sessa Fratelli, 1558, cc. non numerate.

37 La caratteristica dialogica è stata messa in luce sin dal primo studio dedicato all’antologia da Piéjus Marie-Françoise, op. cit. e, in particolare, da Scarlatta Eschrich Gabriella, op. cit. Diana Robin ha parlato di una vera e propria accademia immaginaria che rende possibile il dialogo tra le autrici. Robin Diana, Publishin Women, op. cit., p. 62. In particolare, la studiosa si è soffermata a distinguere la presenza, nelle Rime di donne, di réseaux poetici (pp. 62-65) e mini-canzonieri (pp. 71-73), sottolineando, in entrambi i casi, l’influenza esercitata dalle Rime di diversi illustri signori napoletani a cura di Lodovico Dolce, Venezia, Giolito, 1552.

38 Per la struttura dei mini-canzonieri nelle rime napoletane, si veda la monografia di Milburn Erika, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-Century Naples, Leeds, Maney Publishing, 2003, pp. 84-103. Sulle rime di corrispondenza e la forma antologica all’altezza degli anni ’50 del Cinquecento, Tomasi Franco, «Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento», in «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica nel Cinquecento, a cura di Monica Bianco ed Elena Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, pp. 77-111 (pp. 90-100).

39 Robin Diana, «The Lyric Voices», op. cit., p. 457.

40 Fedi Roberto, «Bembo in antologia», in La memoria della poesia: canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno, 1990, pp. 253-263 (pp. 259-262). Vitelli Francesco, «Sul testo delle Rime di Isabella di Morra», in I Gaurico e il Rinascimento meridionale, Atti del Convegno di Studi di Montecorvino Rovella, Salerno, Centro Studi sull’Umanesimo meridionale-Università degli Studi di Salerno, 1992, pp. 445-463.

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Référence électronique

Clara Stella, « Tra «Vinegia» e Arno: la biografia in versi di Olimpia Malipiero », Line@editoriale [En ligne], 9 | 2017, mis en ligne le 09 mars 2023, consulté le 13 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1689

Auteur

Clara Stella

University of Leeds