Mostruosità femminile e tragedia della maternità

La Medea di Portamedina di Maria Luisa e Mario Santella

Résumés

La Medea di Portamedina di Maria Luisa e Mario Santella è una riscrittura del mito di Medea del 1980, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo d’appendice dell’Ottocento di Francesco Mastriani. È una tragedia della maternità in cui vittime sono sia le madri che le figlie illegittime, in una società in cui leggi le fanno gli uomini e in cui l’onore e la rispettabilità contano più di ogni vincolo naturale. Di fronte all’impossibilità di riscatto sociale, l’infanticidio si presenta come una necessità, come una sorta di eutanasia materna.

Portamedina's Medea by Maria Luisa and Mario Santella is a 1980 rewriting of the Medea myth, a theatrical adaptation of the 19th century novel of the same name by Francesco Mastriani. It is a tragedy of motherhood in which both mothers and illegitimate daughters are the victims, in a society where laws are made by men and where honour and respectability count more than any natural ties. Faced with the impossibility of social redemption, infanticide presents itself as a necessity, as a kind of maternal euthanasia.

Plan

Texte

p. 57-64

Il teatro italiano contemporaneo continua a interpellare i miti greci e ad attualizzare la tragedia attica, che ai miti ha dato per prima la forma letteraria che è giunta fino a noi. Di fronte all’appiattimento e all’omologazione che minacciano la società moderna, il mito si presenta come un sistema esplicativo del mondo1 abbastanza aperto da non fornire risposte definitive, un modello che assicura la nostra identità e al tempo stesso risveglia la curiosità per l’altro2.

Fra le donne del mito più riscritte in epoca contemporanea troviamo Medea, espressione di una terrificante alterità, colei che in balia di ἔρως (l’amore passionale) recide ogni legame : per vendicare il tradimento del γάμος (il vincolo nuziale) da parte di Giasone distrugge il γένος (il legame di sangue e di nascita), sacrificando prima suo fratello e poi i propri figli.

Riscrivere il mito di Medea : La Medea di Portamedina

Dall’antichità ai nostri giorni ripensare Medea vuol dire partire da Euripide, che per primo le ha attribuito l’infanticidio volontario e premeditato3 : per noi Medea è diventata la sua tragedia4, è la madre che dà la vita e poi la toglie, macchiandosi del delitto più atroce e inenarrabile proprio perché considerato contro natura. In una società come quella occidentale che esalta il sacrificio volontario di sé come inclinazione femminile naturale5, le riscritture contemporanee del mito di Medea mettono spesso al centro lo sconvolgimento dello stereotipo della madre sacrificale e della maternità totalizzante e la rivendicazione di una natura dell’essere donna irriducibile al ruolo materno6. Il mito di Medea, spesso ridotto al tema letterario di una maternità perturbante, diventa così il simbolo del diritto alla rivolta di chi è sessualmente e politicamente oppresso7.
La Medea di Portamedina8 è una tragedia scritta da Maria Luisa9 e Mario Santella10 nel 1980, liberamente ispirata al romanzo omonimo di Francesco Mastriani11 e andata in scena lo stesso anno al teatro San Ferdinando di Napoli12. La vicenda prende spunto da un fatto di cronaca avvenuto fra il 1792 e il 1799 a Napoli, realtà segnata da una passionalità teatrale che secondo Giuseppe Pucci si addice particolarmente alla figura di Medea e quindi alla ferinità di Coletta13, protagonista de La Medea di Portamedina. È forse per la stessa ragione che Annibale Ruccello14, Antonio Capuano15 e Mimmo Borrelli16 ambientano le loro riscritture del mito di Medea in Campania, nutrendole dell’espressionismo linguistico del dialetto napoletano.

Dal romanzo di Mastriani, pubblicato postumo nel 1915, i Santella ritagliano la figura di Coletta Esposito facendole dominare la scena come la Medea di Euripide.

Coletta Esposito/Medea, povera e figlia di nessuno, viene esposta appena nata, viene cioè abbandonata alla ruota dell’Annunziata a Napoli, struttura che dava asilo a figli illegittimi o a figli di donne indigenti. In assenza di una madre celatasi nell’anonimato dell’abbandono, Coletta diventa quindi « figlia della Madonna » (p. 24) e anni dopo viene sottoposta a una nuova esposizione : viene mostrata a uomini interessati al matrimonio per acquisire uno stato sociale. Coletta viene presa in moglie da un certo Nunzio Pagliarella che la giovane accetta di sposare solo in virtù della dote offertale da una sua misteriosa benefattrice di nome Cesarina, madre incognita di Coletta. Pagliarella però scatena tutto il disgusto e la virulenza di Coletta, che dopo varie peripezie lo abbandona per rifugiarsi in casa di Cesarina a Caserta. Quando però scopre che Cipriano Barca, scritturale dell’Annunziata di cui è perdutamente innamorata e a cui ha affidato la sua dote, è stato ricoverato in ospedale a seguito di un’aggressione in cui ha perso la vita pure sua madre, decide di recarsi dall’amato. Cipriano è fidanzato con Lucietta, ma Coletta riesce a sedurlo e a farsi giurare amore eterno, accettando la sua proposta di andare a vivere nel quartiere di Portamedina. Dopo aver dato alla luce una bambina di nome Cesarina però, in attesa dello scioglimento del primo matrimonio che le permetterebbe di sposare Cipriano, Coletta scopre che quest’ultimo sta per sposare di nascosto un’altra donna, Teresina, di legittimi natali. Con lucidità e cinismo Coletta decide allora di uccidere la figlia avuta da Cipriano, si reca nella chiesa in cui si sta celebrando la cerimonia nuziale, e dopo le promesse degli sposi, scaglia il cadavere della figlia sull’altare. La sua condanna a morte per « delitto contro la società » (p.85) coincide con lo scoppio della rivolta giacobina per le strade, speranza anch’essa vana di cambiamento e di riscatto.

Storie di donne, storie di emarginazione e di immobilismo sociale

Mentre nel romanzo di Mastriani il legame con l’archetipo è esplicitato dal narratore, il quale racconta sin dalle prime pagine che nelle aule di Giustizia Coletta fu ribattezzata Medea « per somiglianza di atrocità con la famosa figlia del re della Colchide »17, nella riduzione teatrale dei Santella basta il titolo ad offrire un richiamo infausto alla madre infanticida del mito. In apertura poi, come indicato dalla prima didascalia, un registratore trasmette « storie di donne e di tragedie umane » (p. 24), « storie di emarginazione e di ghettizzazione » (p. 24), prima fra tutte quella di Medea della Colchide. Coletta appare inizialmente di spalle, poi si volta e attraverso vari flashback comincia a raccontare la sua storia a un pubblico-giudice : il « mi chiamo Coletta Esposito » (p. 24) con cui esordisce prima di ripiombare nella memoria del passato ha la forza del senechiano Medea nunc sum e ritorna circolarmente alla fine, nel momento della condanna a morte.

Se il monologo iniziale di Coletta di fronte al pubblico-giudice è un dispositivo che ricorda i canoni del teatro di narrazione, poco dopo la sua parola si fa performativa, le sue analessi prendono vita e sulla scena vengono rappresentati gli episodi da lei evocati.

In un mondo in cui il potere è incarnato da figure maschili (il principe di Canosa, Nunzio Pagliarella, un ufficiale di polizia, il re Ferdinando), da Coletta ci si aspetta sottomissione e obbedienza prima di tutto in quanto donna. Coletta può sperare solo nel matrimonio per guadagnarsi un posto nella società, uno status sociale, per cui il giorno dell’esposizione viene « tirat[a] a lucido, come [una schiava] in vendita » (p. 25) e scelta senza che lei abbia voce in capitolo (« Tu mi piaci. Ti voglio per mia sposa » p. 25, afferma Pagliarella). Nella riduzione dei Santella, in linea con l’intensificarsi della riflessione femminista a partire dagli anni ‘70, Coletta acquisisce una consapevolezza della propria subalternità in quanto donna in una società patriarcale (« Noi donne non abbiamo mai avuto nessuna difesa a ciò perché le leggi le fate voi altri uomini e le fate per voi », pp. 72-73). Come Medea, Coletta è « una donna che lotta disperatamente per conquistarsi uno spazio in una società che la rifiuta perché è diversa » (p. 15), una donna che porta il segno della propria estraneità già nel cognome comune a tutte le trovatelle, Esposito, « un dono di emarginazione che ti fa la società » (p. 24). Come in Euripide, anche per Coletta i giuramenti infranti fungono da catalizzatore dell’azione (« Sappi Cipriano che se un giorno tu mi tradirai io piglierei di te la più feroce vendetta. Non giurare, dunque, se non sei convinto e lasciami morire subito che è meglio per tutti e due », lo avvisa Coletta dopo la sua promessa di sposarla, p. 54).

Se nella tragedia euripidea i due mondi di Medea e Giasone sono incompatibili per mentalità, sistema di valori, nozione di giustizia e di letto (parola chiave nel testo al pari di giustizia)18, ne La Medea di Portamedina dei Santella l’incontro impossibile è quello fra « due opposte classi sociali, il sottoproletariato e la piccola borghesia »19, fra legittimità e illegittimità agli occhi della società. Il tentativo di riscatto sociale di Coletta inizia nel momento in cui Cesarina compare per la prima volta offrendole una dote di mille ducati, con la quale potrà almeno disporre di una propria fortuna e di una certa sicurezza anche in caso di separazione (« tu sei una povera disgraziata che può trovarsi da un momento all’altro in mezzo a una strada », le dice Cipriano dopo il furto della dote, p. 43). I mille ducati però si rivelano fatali e Coletta constata che a causa di quel denaro non solo ha finito per sposare il vecchio Pagliarella, ma Cipriano è stato ferito e la madre di quest’ultimo ha pure perso la vita durante il furto in casa sua.

Coletta è un personaggio che lotta fra il desiderio di riscatto e l’amara consapevolezza dell’immutabilità della sua situazione. Quando lascia Pagliarella e si reca a Caserta da Cesarina, nella villa che è la prova tangibile dell’ascesa sociale di quest’ultima in virtù di un matrimonio d’interesse, Coletta si sente fuori posto : dopo essersi interrogata sulle ingiustizie sociali (« Cosa hanno fatto costoro per meritarsi tutto questo ben di Dio? », p. 34) decide di andare via perché quel lusso le appare come una prigione, alla stregua della Casa dell’Annunziata dove è cresciuta. Coletta si definisce « così diversa… selvatica… così sola » (p. 39), dice di odiare se stessa, la sua diversità e la sua bruttezza (p. 52), sa di essere « una povera reietta, un’infelice» (p. 53), una figlia della Madonna o meglio di « mala donna » (p. 36) cui il mondo non può riservare che disprezzo o compassione. Per sdebitarsi del furto della dote, di cui Coletta non chiede la restituzione, Cipriano le offre di andare ad abitare a Portamedina, nel quartiere napoletano in cui ha inizio fra loro una relazione peccaminosa della cui immoralità viene accusata soltanto Coletta : la madre di Teresina le dice che dovrebbe vergognarsi, lei donna sposata, a stare con un uomo libero (p. 66) e le voci del coro sostengono all’unanimità che « quando c’è peccato è sempre colpa della donna […] che poi la donna è tentatrice » (p. 83). Sarà infatti anche per timore della riprovazione sociale, che Cipriano deciderà di sposare Teresina, incorrendo nel mostruoso infanticidio di Coletta.

Coletta, quindi, cerca di ribellarsi al suo destino, di sottrarsi alla condizione di esclusione cui è relegata per nascita, ma per lei, come per la rivolta giacobina che scoppia nel momento della sua condanna a morte, sembra valere il verghiano ideale dell’ostrica, quello secondo cui chi si stacca dallo scoglio per brama di migliorare la propria condizione viene ingoiato dal mondo, come da un pesce vorace20.

Una tragedia della maternità

La Medea di Portamedina è un dramma tutto al femminile, una tragedia della maternità, in cui vittime sono sia le madri che le figlie. Coletta è al tempo stesso figlia sciagurata e madre snaturata, carnefice e vittima di un destino fatale. Appena nata, infatti, viene abbandonata alla ruota dell’Annunziata, in quanto frutto di una relazione adulterina e quindi figlia della colpa. La lettera scarlatta cui si è sottratta la madre di Coletta abbandonandola, pesa però su quest’ultima come una condanna ereditaria e ineluttabile : se nel romanzo di Mastriani Coletta, prima di essere condannata a morte, viene trascinata con una corda al collo e la parola empia a caratteri rossi sul petto, nella riduzione teatrale dei Santella basta il cognome, Esposito, che ricorre con frequenza « nei registri delle galere » e « negli elenchi delle puttane » (p. 24) a costituire uno stigma sociale indelebile. Coletta inveisce contro la madre sconosciuta che l’ha abbandonata, la maledice insieme a tutte quelle « scelleratissime femmine che mandano qui le loro infelici creature, che meglio sarebbe che le strozzassero in sul nascere » (p. 28), presagio del misfatto che le si presenterà come un atto inevitabile.

Se nel romanzo di Mastriani il legame naturale fra Cesarina e Coletta è esplicitato alla fine del romanzo dal narratore, nella pièce dei Santella vari elementi nemmeno troppo velati suggeriscono fin dall’inizio che Cesarina sia la madre « scellerata » di Coletta, costretta a rinunciare al legame con la figlia e a presentarsi nelle vesti di benefattrice da una società che mette al primo posto l’onore e la rispettabilità a discapito del vincolo naturale21. Nella sua prima apparizione, infatti, quando il principe di Canosa di fronte all’aggressività di Coletta ne denigra la discendenza materna (« tua madre doveva essere una di quelle… », p. 28), Cesarina lo invita a misurare le sue parole per una donna « caduta, forse per fatali circostanze, in una colpa ch’ella piangerà per tutta la vita » (p. 28). Cesarina appare miracolosamente, come un deus ex machina, quando Coletta si trova in pericolo : appare quando il principe di Canosa la minaccia di mandarla al Serraglio22 se non accetta di sposare Pagliarella e quando un ufficiale di polizia le prospetta il carcere di Santa Maria Agnone se Coletta non rispetta « i [propri] doveri di moglie » (p. 31). Cesarina fornisce anche un supporto economico a Coletta ogni qualvolta se ne presenti la necessità : inizialmente con la dote di mille ducati, poi portandola con sé a Caserta nascondendo l’identità di Coletta al vecchio marito e ancora pagandole la carrozza che la porterà di notte a Napoli in ospedale da Cipriano. Sotto il segno della maternità inoltre si situano gli slanci d’affetto fra le due donne : Cesarina afferma più volte di amare Coletta come una figlia e Coletta, quando alla fine si appresta a uccidere la figlia, dichiara a Cesarina di amarla come una madre, come quella madre che avrebbe dovuto ucciderla alla nascita e che adesso riesce a perdonare per il coraggio che non ha avuto (p. 79).

Un’altra figura materna assente, per la tragica fine che le spetta, è la madre di Cipriano, la Si-Maddalena (dove Si- sta per signora) uccisa durante il furto della dote di Coletta custodita in casa sua. Cipriano si strugge per l’impossibilità di riavere indietro la sua « povera, vecchia mammarella », la sua « diletta vecchia »(p. 42) che appare nei suoi ricordi come una madre dedita, accudente, depositaria di quell’etica della cura percepita come caratteristica precipua della soggettività femminile e materna23. Sua madre gli portava il caffè a letto, lo aiutava a spogliarsi e a vestirsi, metteva i suoi panni al caldo d’inverno. « Cosa ci fa un figlio senza la mamma su questa terra »? (p. 48), si chiede Cipriano, facendo commuovere Coletta che proietta sulla madre di Cipriano quel diritto di veto e quella dipendenza affettiva che una madre riceve dal figlio maschio in cambio della sua cura e del suo amore24 : « quella donna non potrà mai essere sua moglie, mai ! » (p.50) dice la Si-Maddalena in sogno a Coletta a proposito di Lucietta e le consiglia, per farlo innamorare, di farsi trovare ogni giorno a pregare davanti alla sua tomba. Cipriano infatti sarà profondamente toccato da questo gesto e quando giurerà di amarla per sempre lo farà su ciò che per lui conta di più al mondo, l’anima di sua madre.

Coletta, infine, da figlia della colpa diventa madre scellerata a sua volta : mette al mondo un’altra figlia del peccato, nata come lei all’infuori del matrimonio. Alla bambina appena nata dà il nome di Cesarina, velato stemma matrilineare e insieme presagio di un inarrestabile impulso alla ripetizione. Coletta però è consapevole dell’ingiustizia di mettere al mondo una figlia illegittima e piuttosto che abbandonarla « nella ruota della Nunziata, come un escremento del corpo che si lascia all’angolo di un vicolo » (p. 61) confessa di volerla uccidere « per l’amore che le port[a] » (p. 61), soffocarla con le sue stesse mani per evitare che abbia a soffrire come lei : non potendo essere figlia né moglie, Coletta rinuncia quindi anche ad essere madre.

La mostruosità femminile e l’abiezione dell’infanticidio

Adriana Cavarero sostiene che « l’orrore secondo il mito ha un volto di donna »25, sottolineando quanto in una società misogina che affonda le sue radici nella mitologia classica la scena si faccia più sconcertante, più ripugnante, nel momento in cui a compiere un atto mostruoso è una donna, come nel caso di Medea. Le figure mitologiche sono state a lungo pensate dall’uomo «a sua immagine e dissimiglianza»26 secondo uno schema binario in cui la donna appare il più delle volte o come docile vittima o al contrario « come un’erinni dei giorni nostri “maschilizzata”, aggressiva, violenta, spregiudicata»27.

Medea nei secoli ha assunto spesso i tratti di una mostruosità terrificante o di una follia indomabile, volta a stigmatizzare il crimine dell’infanticidio, avallando al contempo una rappresentazione stereotipata della donna-buona madre di famiglia, « che la vede completamente incapace di uccidere i propri figli se non per cause psicopatologiche »28. Ma già nella Medea di Euripide ciò che colpiva era la lucidità con cui la vendetta veniva messa in atto, una premeditazione che rendeva il crimine ancora più abietto29 e che è insita nel nome stesso di Medea, dalla radice del verbo μήδομαι che significa «penso», «escogito»30. Con la stessa lucidità agisce Coletta, figura di quell’abiezione che Julia Kristeva definisce come « quel che turba un’identità, un sistema, un ordine. Quel che non rispetta i limiti, i posti, le regole »31. Coletta non rispetta nessun limite, si oppone ai modelli codificati in quanto donna ribelle (tanto da meritarsi il soprannome di « la Masaniello della Santa Casa », p. 28) e madre degenere, nel senso che al termine attribuisce Bruna Giacomini, per cui de-genere indicherebbe un allontanamento da ogni legge di genere32. La mostruosità di Coletta è costruita progressivamente attraverso l’aggressività del suo linguaggio e la ferinità della sua violenza : definisce Pagliarella « uno sgorbio di bestialità e putridume » (p. 29), un « brutto vecchio infistolito» (p. 29), una « putrefazione ambulante » (p.31), un « immondezzaio » (p. 33). Dopo le nozze, al primo tentativo di Pagliarella di baciarla lo allontana con sdegno, poi lo graffia a sangue e gli sbatte una sedia sulla testa. L’amore che Coletta prova per Cipriano non fa che alimentare la sua gelosia e l’odio per tutto ciò che costituisce un impedimento alla sua realizzazione : odia la madre sconosciuta che l’ha abbandonata condannandola all’emarginazione, odia Lucietta, la prima fidanzata di Cipriano (« una sartina che io odio e che mi sento capace di strangolarla », p. 36), odia Teresina perché capisce da subito l’inganno, malgrado all’inizio Cipriano l’accusi di farneticare a causa della sua folle gelosia. Coletta non odia però sua figlia, a differenza del personaggio di Mastriani, che prova oscuramente una cieca gelosia per quella tenerezza che Cipriano riserva alla bambina e di cui quindi, nella sua ottica, viene privata.

Qui la virulenza di Coletta è tutta nei confronti delle sue rivali e appare come il risultato di un’irrisolta aggressività verso la figura della madre33 : queste donne s’insultano selvaggiamente (« zoccola », « pulizza cessi », p. 58), mostrando di aver introiettato i pregiudizi di genere per cui l’ingiuria diventa indiretta e si basa su un disonore attinente alla sfera sessuale della madre. La donna quindi figura come una pericolosa tentatrice di fronte alla quale l’uomo può soltanto soccombere (« Figlia di malafemmina! Tu ti sei attirato con le tue male arti l’innamorato mio dentro casa », dice Lucietta a Coletta, p. 57; « Quella svergognata di vostra figlia che viene in casa mia per farsi maniare dall’uomo mio » dice Coletta alla madre di Teresina, p. 66).

A completare il quadro della mostruosità di Coletta, che agisce durante le festività della Pasqua, interviene anche il mitologema della stregoneria di Medea, particolarmente efficace in una cultura popolare che unisce culto cattolico e culto pagano : Lucietta attribuisce l’abbandono di Cipriano alle « male arti » (p. 57) con cui Coletta l’avrebbe sedotto e Cipriano, per scagionarsi da ogni colpa, sostiene di essere stato « irretito da quella femmina forse anche con arti magiche » (p. 85).

Sottolineando l’importanza del genere nella costruzione della donna–mostro, Barbara Creed34 sostiene che, come per tutti gli stereotipi femminili, la donna mostruosa viene definita in termini di sessualità35 oppure per effetto della sua funzione materna e riproduttiva36. Coletta infatti raggiunge il culmine dell’abiezione nella scelta e nelle modalità dell’infanticidio, quando scopre che Cipriano la tradisce e ha deciso di sposare Teresina a sua insaputa. Coletta è un essere temibile non solo in quanto madre che dà la vita e che la toglie, ma anche per la natura ossimorica dell’infanticidio che compie con freddo cinismo e con l’efferatezza destabilizzante della violenza sull’inerme37 : Coletta soffoca la figlia durante l’allattamento al seno, dissacrando il primo gesto d’amore di una madre per la propria creatura, quello di nutrirla attraverso il proprio corpo.

Benché le risa forsennate di Coletta la rendano demoniaca o fuori di senno, Coletta non sembra inserirsi nella casistica delle madri che uccidono i figli per vendicarsi del proprio compagno (affette appunto da quella che è stata denominata la Sindrome di Medea) ma in quella delle madri che pensano di sottrarre il figlio alle sofferenze della vita (quello che è stato chiamato figlicidio altruistico)38.

Se la Medea di Corrado Alvaro uccide i figli per salvarli dal linciaggio dei Corinzi, Coletta uccide la figlia per mano sua, « prima che [l’] uccida il mondo », riferendosi al destino di reietta cui non potrà sottrarsi. Per Coletta l’infanticidio sembra divenire un atto estremo d’amore, seppur distruttivo e autodistruttivo. Contro la violenza di cui è stata fatta oggetto la sua maternità, Coletta uccide la figlia dicendole : « Per amore ti ho dato la vita, per amore te la tolgo » (p. 82).

Come indicato dalle didascalie, sulla scena l’altare si trasforma in patibolo e Coletta, prima di essere decapitata, chiede che la sua testa venga esposta alla Vicaria, in modo che tutte le donne sappiano che le leggi le fanno gli uomini e che i miserabili non hanno leggi che possano difenderli.

Dissacrare per decostruire

Nella pièce dei Santella il tempo è significativamente scandito dalle festività cattoliche di una Pasqua che non è più cerimonia di resurrezione, ma prolungamento del Calvario e rito di morte. Dopo aver soffocato la figlia durante l’allattamento, Coletta scaglia il cadavere sull’altare in cui Cipriano sta per sposare Teresina, dissacrando così non solo la liturgia nuziale che relegherà per sempre sua figlia all’illegittimità ma anche il modello materno d’ispirazione cattolica, quello che presenta la maternità come vocazione al sacrificio.

Coletta, figlia della Madonna, sembra volersi affrancare da questa madre che per lei non ha avuto nessuna pietà (« Quelle che sopravvivono al supplizio della ruota, quelle sono le più disgraziate. Gesù Cristo mi perseguita, la Madonna mi discaccia dal suo seno », pp. 43-44) e che riversa un’area sacra su tutte le madri, presentandosi come la conciliazione irrealizzabile di due aspetti contradditori, l’idealizzazione della figura materna da un lato e la diffidenza verso la sessualità femminile dall’altro39, perfetto contraltare della donna–mostro delineata da Barbara Creed.

Alla Vergine afflitta che stringe il corpo del figlio dopo la deposizione, Coletta si oppone come un’anti-Pietà, una madre figlicida che non stringe il cadavere ma lo scaglia sull’altare, ai piedi della croce. Significativo è anche, in quest’ottica, che Coletta uccida sua figlia, a differenza delle donne del mito che uccidono sempre i figli maschi e mai le figlie femmine, per privare il padre della tranquillità della perpetuazione del suo nome40. Per contrastare il destino di reietta che pesa come una maledizione ineluttabile anche su sua figlia (« Gli uomini si fanno le loro leggi con la violenza ma io non voglio sottostare e nemmeno mia figlia lo farà », p. 74), Coletta uccide Cesarina per porre fine alla tragedia di una maternità impensabile al di fuori dei fantasmi materni patriarcali41.

Di fronte all’impossibilità per Coletta di recuperare la genealogia madre-figlia e per Cesarina di trovare una propria collocazione simbolica42 in un mondo in cui le leggi le fanno gli uomini e in cui la Vergine è una madre che mette il rapporto con il figlio maschio al di sopra di qualunque altro43, Coletta compie un sacrificio che è una sorta di eutanasia materna, una scelta oculata volta a porre fine al sistema coercitivo della ripetizione.

Notes

1 Pierre Grimal, La mythologie grecque, Paris, PUF, 1999, p. 9. Retour au texte

2 Jean-Pierre Vernant, Entre mythe et politique (1996), in Œuvres. Religions, Rationalité, Politique, vol. II, Paris, Éditions du Seuil, 2007, p. 2097. Retour au texte

3 Elena Adriani, Medea in scena : mater o monstrum?, in Saveria Chemotti (a cura di), Madre de-genere. La maternità tra scelta, desiderio e destino, Padova, il Poligrafico, 2009, p. 159. Retour au texte

4 Anna Beltrametti, Eros e maternità. Quel che resta del conflitto tragico di Medea, in Gentili, Franca Perusino, Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia, Marsilio, 2000, p. 44. Retour au texte

5 Cfr. Adrienne Rich, Naître d’une femme. La maternité en tant qu’expérience et institution, Paris, Denoël-Gonthier, 1980 e Élisabeth Badinter, Le conflit  : la femme et la mère, Paris, Flammarion, 2010. Retour au texte

6 Bruna Giacomini, Destini personali : essere madri alla fine del patriarcato, in Saveria Chemotti (a cura di), Madre de-genere. La maternità tra scelta, desiderio e destino, Padova, il Poligrafico, 2009, p. 308. Retour au texte

7 Bruno Gentili, Introduzione a Bruno Gentili, Franca perusino, op. cit, p. 7. Retour au texte

8 Maria Luisa e Mario Santella, La Medea di Porta Medina. Tragedia in due tempi, Napoli, Società editrice napoletana, 1980. A partire da questo momento, per riferirci a quest’opera, indicheremo la pagina in questione a fianco di ogni citazione. Retour au texte

9 Maria Luisa Santella (Napoli, 1945) : attrice, drammaturga, regista. Con il marito fonda il TD (Teatro dibattito/Teatro discussione) che opera principalmente in centri sociali, librerie, circoli giovanili. Retour au texte

10 Mario Santella (Campobasso, 1939) : attore, drammaturgo, regista. Retour au texte

11 Francesco Mastriani (Napoli 1819-1891) era uno fra i maggiori autori di romanzi d’appendice dell’Ottocento. Ne scrisse 107, fra i più famosi : La cieca di Sorrento (1852), Il mio cadavere (1853), I misteri di Napoli (1875). Retour au texte

12 Il Romanzo di Mastriani fu adattato per la scena anche nel 1991 da Armando Pugliese, con Lina Sastri nel ruolo di Coletta; poi da Anna Maria Russo nel 2017. Ricordiamo poi due trasposizioni per lo schermo : quella del 1919 di Elvira Notari per la Dora Film; e quella a puntate di Pietro Schivazappa, per Rai2, nel 1981. Retour au texte

13 Giuseppe Pucci, Medea ’900, in Dionysus ex machina, IX, 2018, p. 276-277. Retour au texte

14 Annibale Ruccello, Notturno di donna con ospiti (1983), a cura di Giulia Tellini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2021. Retour au texte

15 Antonio Capuano, Medea, Napoli, Franco Di Mauro Editore, « Cocumella », 1994. Retour au texte

16 Mimmo Borrelli, La Madre : ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma, inedito, 2010. Retour au texte

17 Francesco Mastriani (1915), La Medea di Porta Medina, Roma, Lucarini Editore, 1988, p. 19. Retour au texte

18 Bruno Gentili, La Medea di Euripide, in Bruno Gentili, Franca perusino, op. cit., p. 34-35. Retour au texte

19 Maria Luisa e Mario Santella, Appunti per una messinscena, op. cit., p. 15. Retour au texte

20 Giovanni Verga, Fantasticheria, in Vita dei campi, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 2006, p. 136. Retour au texte

21 Chiara Coppin, Madri assassine : declinazioni del mito di Medea tra la scena e il romanzo, in Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon (a cura di), I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, atti del XVIII congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), Roma, Adi editore, 2016, p. 4, URL : https ://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/COPPIN.pdf Retour au texte

22 Luogo in cui venivano rinchiusi gli animali, a sottolineare la bestialità di Coletta. Retour au texte

23 Cfr. Davide De Sanctis, Sara Fariello, Irene Strazzeri, Sociologia della maternità, Milano-Udine, Mimesis, 2020. Retour au texte

24 Cfr Anna Bravo, La nuova Italia : madri fra oppressione ed emancipazione, in Marina D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Bari, Editori Laterza, 1997, p. 139. Retour au texte

25 Adriana Cavarero, Orrorismo, ovvero, della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 23. Retour au texte

26 Adriana Cavarero, Nonostante Platone : figure femminili nella filosofia antica, Verona, Ombre Corte, 2009, p.14. Retour au texte

27 Anna Simone, Sessismo democratico, L’uso strumentale delle donne nel neoliberismo, Milano, Mimesis, 2012, p. 11. Retour au texte

28 Sara Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Milano, Mimemis, 2016, p. 24. Retour au texte

29 Cfr. Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione (1980), traduzione dal francese di Annalisa Scolco, Milano, Spirali Edizioni, 1981. Retour au texte

30 Bruno Gentili, Introduzione a Bruno Gentili, Franca perusino, op. cit., p. 14. Retour au texte

31 Julia Kristeva, op. cit., p. 6. Retour au texte

32 Bruna Giacomini, Destini personali : essere madri alla fine del patriarcato, in Saveria chemotti, (a cura di), op. cit., p. 299. Retour au texte

33 Anna Scattigno, La figura materna tra emancipazionismo e femminismo, in Marina D’Amelia (a cura di), op. cit., p. 289. Retour au texte

34 Barbara Creed, The Monstrous-Feminine : Film, Feminism, Psychoanalysis, London, Routledge, 1993. Retour au texte

35 Barbara Creed, op. cit., p. 3. Retour au texte

36 Barbara Creed, op. cit., p. 7. Retour au texte

37 Cfr Adriana Cavarero, Orrorismo, ovvero, della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007. Retour au texte

38 Sara Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Milano, Mimemis, 2016, p. 25. Retour au texte

39 Cfr. Francesca Koch, La madre di famiglia nell’esperienza sociale cattolica, in Marina D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Bari, Editori Laterza, 1997. Retour au texte

40 Nicole Loraux, Les mères en deuil, Paris, Seuil, 1990, p. 78. Retour au texte

41 Saveria Chemotti, Intermittenze. Madri e Figlie nella narrativa italiana contemporanea, in Saveria chemotti, (a cura di), Madre de-genere. La maternità tra scelta, desiderio e destino, Padova, il Poligrafico, 2009, p. 46. Retour au texte

42 Cfr. Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre (1992), Roma, Editori riuniti, 2021. Retour au texte

43 Anna Bravo, La nuova Italia : madri fra oppressione ed emancipazione, in Marina D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Bari, Editori Laterza, 1997, p. 151. Retour au texte

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Référence électronique

Francesca Chiara Guglielmino, « Mostruosità femminile e tragedia della maternità », Line@editoriale [En ligne],  | 2023, mis en ligne le 02 février 2024, consulté le 27 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/2099

Auteur

Francesca Chiara Guglielmino